LECCE – Purezza espressiva e bontà di contenuti. Il teatro si fa anche di questo. Lasciare tracce emotive, civili, politiche anziché estetiche. Mestiere, voce, corpo piuttosto che effetti visuali. Via di Fabrizio Saccomanno, con Sara Bevilacqua e l’autore (che è anche regista) in scena, si potrebbe definire un’opera minimale o minimalista. Scena nuda, un paio di sedie ad ambiente, piazzati e controluce, due attori di cui uno attivo dialetticamente e fisicamente, l’altra di figura, d’espressione, brechtianamente didascalica, silente. Teatro di narrazione, dove l’affabulazione crea gli scenari invisibili per cui l’azione e il tema si compiono. Ed è attraverso la tecnica, raffinata, esperta, di anni di palcoscenico, che la semplicità viene resa nella veste migliore. Da non essere confusa con semplicismo, con il banale. Ci vuole mestiere per rendere in modo netto. Per ridurre il cenno – per esempio – disincrostato da dizione e artifici linguistici verso un’autenticità popolare, da dare a Saccomanno verosimiglianza al personaggio interpretato pur sfumato da note immaginifiche, di teatralità. Si nota, la cifra, quando nello sviluppo della storia, interpretando altri personaggi, vocalmente – personaggi di ricamo e ‘finestra’ narrativa – sfodera le sue armi sceniche, alza il tono, aumenta lo spessore attorale. Segno di dimestichezza navigata…
La storia è uno squarcio su una delle più atroci tragedie della storia. La morte di centinaia di minatori nello stomaco della miniera di Marcinelle in Belgio, nel ‘56. Italiani per la maggior parte, meridionali, calabresi, salentini. La storia raccontata nella verità omessa dalla cronaca. A far luce sulle condizioni di misera cui i lavoratori erano costretti, obbligati perfino a non potere rinunciare alla fatica (pena il carcere), merce di scambio di un truffaldino accordo tra stati, disumano e meschino. Facendo leva sulla terribile povertà delle popolazioni, del Sud, soprattutto, il governo di allora vendette degli uomini allo stato belga in cambio di carbone. Una vera e propria tratta di schiavi. E da tali vennero sfruttati gli emigranti, lasciando moglie e figli che non avrebbero più visto.
Una storia raccontata “di pelle”, affiorando umori e pratiche quotidiane, legami, inimicizie, avventure. Un tessuto umano narrato in prima e in terza persona da un sopravvissuto legato a doppio filo alla terra d’origine: i livelli di racconto si mimetizzano: la terra straniera e la terra da cui si parte.
Dialettica inframezzata qua e la da partiture fisiche, benché accennate e non inspessite, sdoppiamenti, gesto, costruzione meccanica/scenografica. Fughe e ritorni dal nucleo drammatico, a creare varietà ed evitando fossilizzazione. Una storia supportata dalla struttura scenica di penetrante approdo. Non deflagrando in stucchevole compassione o commiserevole pietismo, provocando prurito invece, amplificando la coscienza in una presa di posizione netta. Informazione e scuotimento. Coinvolgimento corposo. Un atto sociale.
Via
ideazione e progetto Fabrizio Saccomanno e Stefano De Santis
drammaturgia e regia Fabrizio Saccomanno
con Fabrizio Saccomanno e Sara Bevilacqua
Visto al Teatro Paisiello, il 4 febbraio ’15 – Lecce