MILANO – E’ una drammaturgia atipica, questo “Combattenti” di Renato Gabrielli. Se del drammaturgo ricordiamo i toni più surreali di “Questi Amati Orrori” o la vicenda complicata e ricca di risvolti di psicologici de “La donna che legge”, questo testo può lasciare perplessi. La storia è quella di uno dei tanti appuntamenti mancati, che, qui sul versante affettivo, ma spesso capita anche in altri ambiti della vita, costellano le esistenze un po’ di tutti, specie se – com’è il caso dei due protagonisti – si sia raggiunta un’età matura. Quando gli anni si declinano in “anta”, non è così inusuale trovarsi ad aggiungere ancora un’altra spunta all’elenco dei “fallimenti”. Capita così a questi “Combattenti”, che, a onor del vero qui è solo il nome di una palestra per pugili. Sono i nuovi precari emotivi, lavorativi ed affettivi della società contemporanea. Sono i quaranta/cinquantenni di oggi, che, abbacinati dai lustrini degli anni ottanta, si sono invece trovati a fare i conti con gli anni novanta e poi col nuovo millennio. Inaugurato dallo spauracchio del bug che avrebbe dovuto mandare in tilt il crescente astro di una tecnologia che si preannunciava onnipotente, il ventunesimo secolo se ha sì in parte mantenuto la sua promessa in termini di abbattimento dei secolari limiti di spazio e tempo, ha altresì mostrato lo stigma di liquidità e volatilità, dando il via ad un sistema, in cui tutto l’easy, free e social di fatto spesso altro non è che lo zucchero con cui indorare la pillola di una mancanza di radici e dogmi indiscutibili; e chi lo sa se questo sia davvero soltanto un bene.
La trama racconta di Giudy “la furia” e Raffaele: famosa ex boxeuse, la prima, suo tanto devoto quanto invisibile fan, il secondo, s’incontrano sul ring della palestra di lei. Lo scontro è quello fra una donna forte, sarcastica e a tal punto sicura di sé, da risultare sprezzante, e un uomo improbabile, separato, impacciato, che dissimula la propria goffaggine in una proattività commerciale, che sa quasi di spavalderia.
Un lungo incontro a più riprese, ben reso dalla regia che gioca coi suoni del ring, in cui i due si studiano, si saggiano, si azzuffano, a tratti, per poi tornare ai propri angoli; e di nuovo il gong di un altro round e di un altro ancora, in un crescendo, che mescola allenamenti e vita, sodalizi lavorativi e scaramucce affettive, perché “la box e la vita sono la stessa cosa”, dice Raffaele. Certo, ciascuno dei due è un mondo ed ha un mondo attorno a sé. Così se la cugina/segretaria di Giudy costantemente le ricorda quella vita “normale” – di moglie e di madre -, che a lei non è data, specularmente il giovane rampante e multy tasking datore di lavoro di Raffaele e il collega suo coetaneo, ma anche il figlio o la ex moglie, ci parlano del complicato equilibrismo, entro cui è costretto a giostrarsi l’uomo, fra sconforto ed euforici scoppi di disarmante entusiasmo. Fino alla fine: un epilogo se non scontato, quanto meno prevedibile, una volta delineata la cifra di combattenti, sì, ma di quelli a testa bassa e a muso duro, per i quali difficilmente potrà mai brillare altro che la luce di una normalità sudata e che non fa sconti.
E come si rende tutto ciò sulla scena? La regia di Paola Manfredi sceglie di farlo entro le corde scarlatte di un ring, in cui costantemente ambientare il dipanarsi della vicenda. Cavalcando la metafora boxe e vita già sapientemente modulata da una scrittura di scena attenta nel pescare dall’ambito semantico del pugilato così come da quello speculare del business, i due s’incontrano, scontrano, vivono ed evolvono entro quel perimetro. E’ un cambio d’abiti, continuo e a vista del pubblico, a segnalarci il cambio di scena, mentre la frontalità quasi costante degli attori alla platea suggerisce un’incomunicabilità di fondo, che travalica i goffi tentativi d’approccio reciproci e le scaramucce spesso più virtuali e a colpi di mail, evitando quel contatto fisico che ci si aspetterebbe da due lottatori corpo a corpo. E’ che non è così: non sono certo figure eroiche o agonistiche, i due protagonisti; due antieroi, semmai, in senso moderno, ciascuno trincerato nella propria grammatica, efficacemente restituita da un mix sound che, riproducendo i suoi del ring, dell’invio della mail, o della vibrazione del cellulare, con meccanismo mentale primordiale immediatamente ci trasportano a quelle realtà. La parola è scelta, precisa, a tratti ironica, divertente e poetica, anche se scorre via leggera, senza troppo indugiare su una complessità psicologica, più spesso accennata, che indagata. Quasi sempre i coprotagonisti vengono evocati attraverso l’irrompere di una telefona: giusto poche battute ed ecco che reazioni inconsulte dell’uno o dell’altra ne tratteggiano ancora un altra faccia. Mirabile il “pas à deux”, in cui, quasi alla fine, le telefonate dei due s’intersecano con una precisione di scrittura tale da farle confluire come in una comunicazione unica: rispondendo al destinatario è come se ciascuno rispondesse anche all’altro, in un fraseggio che sembra un canto di corteggiamento destinato a confluire in un assolo a due voci.
Ma forse sono troppo lontani, in fondo, questi due combattenti. Troppo distratti, inefficaci e profondamente spauriti al punto da risultare solipsistici. Sempre a un passo soltanto dal buttare il cuore oltre l’ostacolo, se sono sì disposti a rischiare sul piano professionale, non così su quello affettivo, dove indugiano, rimandano, ritardano, sviano, lasciano che ritmo e tensione sfumino, in un rosario di occasioni mancate. In scena recitano Lilli Valcepina e Giorgio Branca ad avere l’onere d’incarnare questi due e forse quella generosa imprecisione vitale ne contagia un po’ la performance.
Visto al Teatro Alta Luce di Milano, il 5 marzo 2016