Spettacoli — 10/02/2025 at 16:53

Umanissimi “Semidei” fra mito, pop e l’inoppugnabile condanna della guerra

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RUMOR(S)CENA – MILANO – In scena nel suggestivo spazio del Piccolo Teatro Studio Melato di Milano fino al 23 febbraio 2025, “Semidei”, scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano, a ragionar dell’insensatezza della guerra. Se il pretesto è la paradigmatica guerra di Troia, non per questo smorzato ne risulta lo stigma: non importa se vincitori o vinti, la guerra non risparmia nessuno.

Una pièce a due tempi

Ce lo aveva raccontato in conferenza stampa, Pier Lorenzo Pisano, che questa pièce avrebbe riguardato il prima e il dopo della guerra di Troia. Eludere il corpo delle vicende, in fondo, si rivela efficace escamotage per un’esplicita condanna di ogni conflitto, a prescindere. Eppure, sarebbe riduttivo liquidarla così. Se la finestra temporale è quella, c’è molto di più. I giovani sono gli eroi ante litteram, spaventati e proprio per questi renitenti a partire… spesso avvinti da quell’implacabile legame filiale, che inchiodava Ulisse o Ettore ai loro infanti, così come pure il bizzoso Achille alla sempiterna genitrice. Ed è proprio questo strappo, che li renderà abbastanza adulti da compiere quel Destino, che li vuole eroi. Ed è qui, che lo spettacolo svolta, trasformando una parodia facile, quasi banale e smaccatamente acchiappa like, in qualcosa che cresce, svelando, vieppiù, la rotondità attorale del cast.

Pia Lanciotti/Teti ed Eduardo Scarpetta/Achille ®MasiarPasquali

Il “prima”

Entrando in sala, non si può non rimanere ammaliati dalla scenografia di Giuseppe Stellato. Un fil di sabbia, incastonato in un fascio di luce, pioviggina, come all’interno di un’invisibile clessidra. Dà un singolare senso di sospensione, perché non si accumula, ma sembra come svanire, scivolando in un non meglio identificato altrove. Alla base, un’enorme piattaforma: è la spiaggia, su cui, dopo l’iniziale litania funebre (rivisitata e ripetuta a loop nella sala buia), nell’accecante sole uno ad uno compaiono gli eroi a scrutar quel mare, che presto li porterà alla guerra. Il registro è leggero, specie nelle prime battute; ma è impossibile non presentire, nel basamento, che li solleva a un piano mitologico e quasi meta reale, la sagoma del catafalco, che ce li prefigura già morituri.

Francesco Alberici/Ulisse e Claudia Gambino/Penelope Marco Cacciola/Agamennone e Pieluigi Corallo/Menelao ®MasiarPasquali

Si consumano qui, le vicende di uomini, che tutto vorrebbero, fuorché partire. Sono i legami del cuore, a trattenerli (efficacissima, la scelta di affidare alla medesima coppia di attori, le coppie rivali Ulisse/Penelope ed Ettore/Andromaca, esplicitando, così, l’identica umanità nelle pur opposte fazioni). È la medesima paura di morire (vedi gag della lagna di Achille, che rimprovera alla madre Teti quel tallone rimastogli vulnerabile). È lo strazio di dover lasciare figli ancora troppo piccoli, per potersi ricordare di loro e che, nella migliore delle ipotesi, troveranno già grandi, al loro ritorno. È l’insensato Fato, che sovrasta perfino l’onnipotente Zeus, a consegnarli a morte certa, lasciando, quegli Dei antropomorfi (“quantitativamente amplificati, ma non qualitativamente diversi”), orbi dei loro figli/eroi mortali e in fondo soli, con quella loro eternità, che sa quasi di condanna.

In primo piano: Claudia Gambino/Andromaca, Pia Lanciotti/Ecuba e Caterina Sanvi/Cassandra ®MasiarPasquali

Il “dopo”

Così non mancano i gesti teneri, rubati al quotidiano: il gioco coi bambini, in attesa, sulla spiaggia o le forzatamente divertite filastrocche e le ninne nanne per farli addormentare – né la prosaicissima rivalità fra fratelli, Agamennone e Menelao, già adulti, eppure ancora alle prese con un’irrisolta richiesta di attenzione. Neppure mancano le bagarre fra divinità – filologicamente esatte, in quel loro essere davvero troppo umane -, fino a toccare l’acme in Zeus. Vittorioso sul padre Krono, arriva all’assurda immotivata pretesa del sacrificio di Ifigenia: per mano dello stesso padre (“Se uccidi tua figlia, tutte le altre morti ti verranno facili”), pur di primeggiare in insensatezza sul Destino – e, quindi, soverchiarlo. Ed è qui, che il lo spettacolo svolta.

Così, a poco a poco, tutto scolora: le tiritere infantili si tingono di rime sinistre, le luci si fanno tetre e quegli iniziali volutamente improbabili costumi da bagno, ricchi di dettagli pop al limite del demenziale, lasciano spazio a elmi e armature e agli efficacemente evocativi pantaloni cargo dei reduci delle guerre moderne – e ai pepli a alle vesti stracciati delle Troiane, bottino di guerra del loro stesso strazio, prima ancora che dei Greci. Già, perché in questo secondo movimento drammaturgico – temporalmente più contenuto, ma drammaticamente più impattante – assistiamo alla sconfitta totale. Che la città brucia ce lo raccontano, a tratti, Cassandra o Ecuba, nella lancinante auto illusione d’indovinare ancora le sagome dei luoghi familiari; e noi assistiamo all’insensato orrore, che la guerra genera.

Pierluigi Corallo, Menelao ®MasiarPasquali

Sincretismo narrativo

Molteplici sono i modi, attraverso ci viene restituito quest’orrore. È l’insostenibile tormento di Andromaca, intenta a rovistare fra i brandelli dei cadaveri, alla ricerca dei resti del figlioletto. A interpretarla, un’intensissima Claudia Gambino (anche Penelope, nei duetti iniziali con un Francesco Alberici ben in parte nel doppio ruolo di Ettore e Ulisse). Generosa e struggente fino alle lacrime, qui, pur riuscendo a mantenere lucidità e quella incisiva credibilità delle scene iniziali, traboccanti della tenerezza delle giovani spose. È sempre lei a incalzare Neottolemo (Eduardo Scarpetta, istrionico nell’impersonare sia Achille, che poi il figlio), perché vuol sentirlo direttamente da lui, quanti ne abbia ammazzati – di uomini, donne e bambini -, lui, che ha fatto scempio anche del suo tenero Astianatte.

E non importa se il racconto passa attraverso le predizioni di morte di Cassandra (Caterina Sanvi, tanto delicata nell’assecondare il gioco della memoria della madre, quanto ardita nel sostenere l’incalzare del Re di Micene) o attraverso una sarcastica lectio sull’anfora raffigurante Neottolemo, che uccide Priamo, percuotendolo col cadavere di Astianatte. Non importa se è il tormento di Agamennone (in questa replica interpretato da un versatilissimo Marco Cacciola, padre tenerissimo e suo malgrado figlicida dimentico, che non può tollerare l’idea della fine del conflitto, per non dover fare i conti con quel suo scellerato atto di devozione). Non importa se sia lo strazio di Ecuba (una magistrale Pia Lanciotti, a interpretare anche quell’altra madre, Teti, così diversa, nel suo essere immortale, eppure non meno trafitta dal terrore della perdita del figlio) o l’esegesi del quadro di De Chirico. Non importa se tutto quell’orrore sembra generato solo dal capriccio di un Re bamboccio, a cui non par vero di poter chiamare a raccolta tutti i sovrani della Grecia, finalmente il suo infantile bisogno di attenzione. Ben ce lo restituisce, questo mood, Pierluigi Corallo (interprete anche dell’altrettanto bizzoso Zeus), col suo Menelao quasi evanescente.

Marco Cacciola/Agamennone e Pia Lanciotti/Ecuba ®MasiarPasquali

“Il resto è silenzio”

Ciascuno di questi quadri non fa che aggiungere ancora un altro tassello a quella Guernica, che ogni guerra è. Il peggior sacrilegio, forse non solo qui, sembra essere l’ostinata opposizione a deporre le armi – forse per non dover fare i conti, a guerra finita, con quel che a causa della guerra si è fatto. Eppure tutto ha una fine – fra gli uomini, come fra gli Dei, spettatori inermi del nostro fulmineo passaggio – e: “Il resto è silenzio”, rubando la chiosa a Yago, che, a epilogo dell’“Otello”, così invocava il pietoso velo dell’oblio. Il silenzio, qui, viene invece recuperato in tutta la sua valenza ristoratrice. Se i roghi, che divorarono Troia producevano un rumore così assordante, da coprire perfino il mugghio del mare, racconta Ecuba; e se le miserie dei bisticci fra divinità risuonavano nelle orecchie di Zeus come gli incessanti ronzii di moscerini fastidiosissimi, è proprio la riscoperta del silenzio, a distruzione compiuta, a convincere Agamennone a lasciare finalmente la città. E con questa desolazione da day after si chiude catarticamente lo spettacolo. Qualche concessione, forse, ad una certo pop – e, per converso, ad un’erudizione esibita -, ma di certo una cavalcata di senso, sentimento ed emozione, fino all’inevitabile condanna della guerra. Nel mezzo, una preziosa cura di scene, costumi (uno per tutti: l’armatura di Neottolemo, impastata di macerie e di bambini), parole, movimenti scenici, ma soprattutto di idee e attori – sapientemente scelti, impeccabilmente diretti e dall’altissimo profilo.

Visto al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano l’8 febbraio 2025

per gentile concessione di Francesca Romana Lino

www.platealmente.it

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