Teatro, Teatro recensione — 10/03/2015 at 21:57

Vocazione di un attore: Danio Manfredini

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VERONA – Vocazione significa essere protagonisti per scelta o per necessità? Vocazione nel fare della propria vita una missione come lo può essere un attore dedito al teatro? E se si, la sua vocazione sarà eterna e duratura, e tutto ciò cosa comporta? Danio Manfredini nel suo “Vocazione” apre squarci di visione su come un attore vive e si consuma fino allo spasimo per ottenere il successo, il riconoscimento, l’applauso e la gratificazione per il suo talento. I personaggi interpretati da Manfredini si susseguono uno dietro l’altro, entrano ed escono dalle quinte indossando e dismettendo costumi di scena che lo trasformano in Nina del Gabbiano di Cechov, un attore anziano dimenticato da tutti , ancora convinto di poter interpretare ancora il ruolo di Re Lear, un uomo che si sottopone ad un’operazione per cambiare sesso e diventare donna per amore e finire respinta dal suo amante. Si assiste ad una rappresentazione di un’umanità dolente, di storie di vita finite negli angoli più bui di un mondo segnato da solitudine e sofferenza.

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Vocazione racconta come si è destinati spesso a soccombere per mano di se stessi. E l’interprete autore sceglie di farlo citando autori come Thomas Bernard, Fassbinder, di cui si assiste ad un frammento del suo Tre studi per una crocefissione, titolo in repertorio da decenni. E Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane che in questo caso è un uomo interpretato da Vincenzo Dal Prete, coprotagonista di talento, dove l’uno diventa specchio dell’altro, in cui proiettare i propri fantasmi e le proprie paure. Sembrano rincorrersi sulla scena, disperati e folli, anime erranti in cerca di una pace che non arriverà mai. Vocazione conduce lo spettatore nei meandri più oscuri di un dietro alle quinte di un teatro: altro non è che la Vita, scelta da chi è costretto suo malgrado a recitare su un palcoscenico. Danio Manfredini sembra dirci che non esiste rimedio o antidoto a questo. Lo racconta con feroce sarcasmo e lucida autoironia. Vocazione può essere una sorta di rappresentazione auto celebrativa della sua carriera ma fermarsi qui diventa fuorviante e limitativo dell’impegno artistico e drammaturgico, che fa di Manfredini un protagonista assoluto della scena contemporanea. La sua poetica da vita ad un viaggio immaginifico, surreale perché travalica ogni confine realistico, creando delle visioni che si dilatano sulla scena spoglia e scarna, dove trovano posto solo pochi arredi utili per i cambi a vista.

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Un fondale trasparente per diventare schermo per immagini evocative. Il suo intento è anche quello di raccontare in una sorta di antologia drammaturgica e scenica alcuni capisaldi del teatro universale. Sceglie di farlo citando Čechov con il Canto del cigno, Testori e la sua Conversazione con la morte, e ci dice come sia inutile rincorrere illusioni e sogni perduti. Indossando maschere grottesche per amplificare il senso di spaesamento che ti agguanta e ti rapisce portandoti via nel loro mondo così oscuro dove ci si perdutamente attratti. Il teatro non può essere altro che una musa a cui non ci si può sottrarre.

Produzione La corte Ospitale
VOCAZIONE
ideazione e regia Danio Manfredini
con Danio Manfredini e Vincenzo Del Prete
assistente alla regia Vincenzo Del Prete
progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti e Massimo Neri
disegno luci Lucia Manghi, Luigi Biondi
collaborazione ai video Stefano Muti

Visto al Teatro Comploy di Verona il 27 febbraio 2015

Rassegna L’altro teatro organizzata dal Comune di Verona in collaborazione con Arteven (Circuito Teatrale Regionale), con il Teatro Stabile di Verona e con l’Associazione Culturale EXP – Are We Human.

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