RUMOR(S)CENA – In questi giorni è in scena fino al 5 maggio al Piccolo Teatro Grassi di Milano lo spettacolo Zoo di Sergio Blanco che firma anche la regia, con Sara Putignano, Lino Guanciale e Lorenzo Grilli. Sull’autofinzione, il metodo di scrittura drammaturgica per il teatro, Sergio Blanco ha pubblicato il saggio “Autofinzione. L’ingegneria dell’Io”(la traduzione è di Annabella Canneddu) (edito da Cue Press nella collana “Gli artisti” per il volume “Teatro” dove sono pubblicati anche Tebas Land, L’ira di Narciso e il bramito di Düsseldorf (tradotti da Angelo Savelli) è possibile rintracciare la particolare poetica di Sergio Blanco dove il lettore e lo spettatore non riesce a distinguere quella che è la verità dalla finzione ma viene condotto verso una rappresentazione dalle mille sfaccettature sempre attente a cogliere aspetti etici e sociali che rappresentano la difficile esistenza dell’essere umano. La presentazione è avvenuta al Teatro di Rifredi di Firenze nel 2019. Sergio Blanco spiega che quanto ci sia di vero e quanto sia frutto di finzione sta al pubblico decifrarlo e tradurlo nel “patto di menzogna” stipulato con l’autore, attore, drammaturgo e interprete.
A parlarne è lo stesso l’autore nella sua opera “Il bramito di Düsseldorf”: «… si apre con una Captatio in cui uno dei personaggi propone quella che finora mi sembra la migliore definizione che sono riuscito a dare di autofinzione» e lo fa dire all’attrice Soledad Frugone che interpreta uno dei ruoli: «… Sergio dice che l’autofinzione rappresenta il lato oscuro dell’autobiografia, e come l’autobiografia si basa su un patto di verità, così nell’autofinzione vige un patto di menzogna...». Un patto di complicità che si viene a creare tra la scena e la platea, assecondando reciprocamente una scelta artistica quanto filosofica, che Blanco ha scelto e conduce con estrema coerenza, capace di portare lo spettatore nei meandri più oscuri e conturbanti dell’animo umano in cui ognuno può scandagliare vissuti ed emozioni. Un oscuro mondo dove la realtà, le citazioni autobiografiche si dissolvono e riappaiono come flash dell’inconscio riemerso dall’oblio della mente.
A Sergio Blanco preme spiegare come «Nessuna delle mie autofinzioni ha come obiettivo quello di promuovermi o rendermi popolare, al contrario, molto spesso le mie opere sono attestazioni di fragilità e vulnerabilità. Nelle mie storie di autofinzione provo a trovare le storie degli altri, per sentirmi meno solo. D’altra parte, raccontare se stessi, narrarsi, non è mai un atto d’amor proprio, è un tentativo di farsi voler bene».
«La cosa che più mi affascina dell’avventura autofinzionale è proprio lo scollamento dalla realtà, l’autofinzione giura infedeltà e slealtà al documento originale. La cosa che mi più affascina dell’avventura autofinzionale è proprio lo scollamento dalla realtà, dalla verdicità dell’esattezza, poiché laddove un’autobiografia attesta e certifica, l’autofinzione invalida e disattende».
E la conferma di questo pensiero – confessione la possiamo ritrovare in un testo fondamentale come “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé” di Duccio Demetrio (Raffaello Cortina Editore), professore di Educazione degli adulti all’Istituto di pedagogia dell’Università degli studi di Milano. Nella quarta di copertina si evince bene come sia autocurativo raccontare di sé: «Sperimentiamo così il “pensiero autobiografico” che richiede metodo, coraggio, ma procura, al contempo, non poco benessere. Questo libro accompagna il lettore nel percorso stilistico e psicologico che intraprende chi scrive della propria vita. Suggerisce quali criteri seguire e spiega perché raccontarsi in prima persona può essere un gioco felice, un’esperienza inusuale che cura, un’avventura dai molti significati».
Scrive il professor Demetrio nel capitolo “Il pensiero autobiografico. I grandi maestri dell’autoformazione” a pagina 60: «Il pensiero autobiografico è tante operazioni cognitive insieme. Talvolta distinguibili l’una dall’altra, talaltra assolutamente fra loro fuse. Entrano in scena in compagnia dei ricordi, quasi fossero “suture” del pensiero alla ricerca di accordi fra loro originali o ricorsivi». E ancora a pagina 65: «Il ricordare è azione contro il dimenticare, per la riaffermazione della vita contro l’ineluttabilità della morte. Pur non potendo essere vinta, essa può essere allontanata; con la conseguenza che, in questo differimento, trova la sua prima gestazione il pensiero che si prende cura della vita individuale, attraverso la descrizione di ciò che si è vissuto e del vivente, che così si istituisce, e si riconosce».
Nell’intervista che Sergio Blanco ci ha concesso (in occasione del debutto di Tebas Land) spiega come sia arrivato a scrivere con la tecnica dell’autofinzione
«Ho sempre concepito il pensare come un meccanismo di auto – destabilizzazione e auto problematizzazione permanente: pensare è sempre pensare contro se stessi, è un esercizio in cui atteniamo continuamente al pensiero stabilito in precedenza. In tutti questi anni ho pensato l’autofinzione come una costruzione di strategie auto – offensive, cosa che mi permesso di procedere, qualche volta anche all’indietro. (..) Tutte queste idee e appunti sull’autofinzione, perciò, non saranno che un tentativo di avvicinarmi a quella che si può chiamare una scrittura dell’Io».
Estratti da
a proposito di Zoo (da www.piccoloteatro.org)
Sergio Blanco ha creato il testo allo zoo di Parigi, stando realmente accanto a un vero gorilla: “Avevo bisogno della sua vicinanza per poter scrivere – ha dichiarato –. Ogni volta che andavo a vederlo, al giardino zoologico, il mio battito cardiaco aumentava, man mano che mi avvicinavo al recinto. Appena arrivava, ci guardavamo, facevamo dei gesti, poi, a poco a poco, cominciavo a scrivere. Un giorno ho compreso che non stavo scrivendo su di lui ma per lui, e questo mi affascinava. Un altro giorno, i veterinari mi hanno spiegato che anche la frequenza cardiaca dell’animale accelerava quando mi vedeva avvicinarsi. Mi sono dovuto assentare per due settimane. Quando sono tornato, è venuto davanti a me e ha pianto. Ho pianto anch’io. Ed è stato lì, in quel preciso momento, che ho capito che entrambi ci stavamo dirigendo verso qualcosa di innominabile. L’unica cosa che potevo fare era abbandonarmi, cioè darmi anima e corpo alla scrittura. Ed è ciò che ho fatto”.