BOLZANO – Un microcosmo capace di rispecchiare una complessa realtà sociale, culturale, etnica; nelle sue identità linguistiche differenti, capaci di suscitare conflitti ideologici e politici, separare e dividere la gente che abita una terra di confine: è la provincia Alto Adige – Südtirol, a statuto autonomo insieme al Trentino. Un piccolo “pianeta” che ruota intorno ad un chiosco, dove fino a notte fonda, si consumano würstel e panini con maionese e ketchup; campione rappresentativo degli abitanti di quest’area geografica italiana, finita sui media nazionali per l’esito ancora incerto e provvisorio delle elezioni comunali a Bolzano, per le tante contraddizioni che la politica e gli elettori, ancora non sono riusciti a risolvere. Difficile governare da queste parti. Il chiosco è di un “brattaro”, definizione autoctona di un venditore che in altre regioni è il paninaro o il venditore di lampredotto (specialità a base di trippa, vero cult dello street food fiorentino), mentre a Bolzano assume questo curioso termine che lo contraddistingue, come inevitabilmente accade ogni qualvolta si fa cenno ad usi e costumi, tradizioni e abitudini altoatesine. Brattaro diventa “mon amour”, l’ultima produzione del 2016 messa in scena dal Teatro Stabile di Bolzano, ora TRIC, su testo di Paolo Cagnan e la regia di Andrea Bernard.
Intorno al suo chiosco si assiste a un’indagine di polizia per un sospetto caso di omicidio, pretesto drammaturgico per raccontare un’altra realtà: la convivenza tra popolazione di lingua italiana e quella tedesca, oltre a quella ladina (ma in misura assai minore), dove se si presta attenzione a un’analisi socio politica, tra passato e presente, emerge come sia strano costatare le tante rivendicazioni autonomiste a favore di una separazione dall’Italia (verso l’Austria) per tutelare una minoranza che non lo è, di fatto, (gli abitanti di lingua tedesca sono in numero maggiore rispetto a quelli italiani), in considerazione dello statuto di autonomia, riconosciuto in un trattato internazionale. L’alto tasso di benessere anche economico appare come un’anomalia se si pensa alle rivendicazioni di natura politica che creano, spesso, instabilità. Dal Brattaro, invece, le preoccupazioni sono tutte concentrate sulla morte della sua dipendente trovata riversa a terra dietro il banco, e di conseguenza tutti i clienti, abituali frequentatori sono sospettati e interrogati da un ispettore di polizia, da poco a Bolzano, non abituato – quindi – a capire la vita e le abitudini di una città di provincia.
Fulvio Cauteruccio entra sulla scena del delitto con il fare abituale di un poliziotto a caccia di colpevoli, fornendo prova di saper creare con efficacia – e per certi versi – anche ironico – un investigatore che riassume a sé tutte le caratteristiche di un “forestiero”, ignaro di quelle dinamiche sociali e culturali che sono la matrice originaria di tante separazioni tra gente di quartieri diversi come se fossero distanti anni luce tra di loro. Basta spostarsi di poche centinaia di metri che cambia tutto: dalla lingua alle abitudini sociali, la stessa fisicità dei comportamenti. Ne esce un “deus ex machina” capace di catalizzare la storia che scorre inizialmente come un giallo di cronaca nera, per poi risolversi in una morte non dolosa della donna. Se pur non c’è un assassino da condannare, tutti sono altrettanto “colpevoli” e legati alla vittima per diversi motivi: affettivi, economici, relazionali e “complici”, per nulla esentati da responsabilità morali ed etiche.
La regia snella e funzionale di Andrea Bernard crea come un carillon caricato a molla che fa “danzare” in scena tutti con pari importanza: dal brattaro interpretato da Fulvio Falzarano, uno scorbutico commerciante insofferente e ago della bilancia, come una specie di spartiacque a dividere chi ha ideali politici nazionalistici anche estremi, e chi sceglie una convivenza più integrata. Le scene tra lui e l’investigatore sono acute, rilevate da un cinismo perfido e inquisitore, tanto da riversarsi su tutti gli altri. Il regista dosa con equilibrio i pesi e i contrappesi di tutti i protagonisti della pièce teatrale, commissionata da Marco Bernardi e Walter Zambaldi (protagonisti di recente del passaggio di “testimone” alla direzione del Teatro) al fine di proseguire con la tradizione di una drammaturgia del territorio (da “Ciò che non si può dire – il racconto del Cermis di Pino Loperfido a “L’acqua ci correva dietro” di Andrea Rossi, senza dimenticare “Avevo un bel pallone rosso”di Angela Demattè per la regia di Carmelo Rifici). Il brattaro capta umori che agitano da sempre la vita sociale di Bolzano, e Paolo Cagnan tocca molti aspetti sia irrisolti tanto quanto consolidati che fanno di Bolzano e l’Alto Adige, un laboratorio permanente d’indagini anche letterarie come l’ultimo libro di Sebastiano Vassalli “Il confine. I cento anni del Sud Tirolo in Italia” (Rizzoli editore) che racconta di una terra di frontiera quanto paradiso turistico “in cui due popolazioni sono destinate a convivere. Ma cos’altro sanno gli italiani di questa regione e della sua storia? Quasi niente e, peggio; l’hanno sempre capita poco”.
Il “brattaro mon amour”offre con semplicità una lettura divertente e per certi versi dissacrante giocando su registri metaforici e surreali, ottimamente supportati da una scenografia ideata dallo stesso regista (Andrea Bernard è un architetto come formazione universitaria) dove il chiosco si apre e si chiude ruotando su se stesso, illuminato da luci verdastre e giallognole, capaci di far leva sulle suggestioni emotive dei personaggi, giocando anche sull’effetto spazio temporale degli accadimenti che si susseguono, e mosso dagli stessi attori: Irene Villa emigrata ucraina, dalla bella presenza scenica e sicura dizione che tradisce la sua origine straniera, Paolo Grossi figlio di una borghesia corrotta, spavaldo quanto arrabbiato con la vita stessa, la sua e quella degli altri; attore che si rivela sempre più interessante per le sue doti. La sua fidanzata viziata e’ Karoline Comarella. Günther Gotsch riveste con determinazione e forza espressiva il ruolo scomodo di un cittadino di madre lingua tedesca, difensore della sua Heimat (vocabolo tedesco che non ha un corrispettivo nella lingua italiana e si può definire come “piccola patria” o “luogo natio”, a indicare il territorio e la casa in cui si è nati), e lo fa in mezzo al pubblico, salendo i gradini della platea. Viene a mente il film per la televisione “Verkaufte Heimat” di Karin Brandauer e Gernot Friedl, girato nel 1989 in Alto Adige (dal romanzo di Felix Mitterer), l’unico film che racconta le vicende storiche sudtirolesi dal 1938 alla metà degli anni Sessanta.
Dario Spadon è un nostalgico e buffo “maȋtre à penser” legato a ideali politici di sinistra, ormai decaduti, che nel suo incedere esistenziale, quasi ingenuo, si rivela un personaggio caratterizzato per la sua bonarietà in antitesi a quell’aggressività latente – che a tratti fuoriesce dai dialoghi tra i sette protagonisti, come fossero delle marionette mosse da invisibili mani, legati da uno strano e insolito destino: tutti innocenti e tutti colpevoli. Il sottotitolo di Brattaro mon amour: “Periferia semiseria”. La scelta di rendere tutto semiserio come se fosse un gioco delle parti a lieto fine, da una parte convince per disinnescare il portato sociale e politico che s’intravede tra le righe del testo di Paolo Cagnan, (di professione giornalista e condirettore di quattro testate nel Veneto, dopo la felice esperienza come direttore a Reggio Emilia), dall’altra lascia spazio a un finale che poteva essere risolto diversamente? L’interrogativo resta aperto. Come restano aperi tanti quesiti di un territorio attraversato da inquietudini e barriere difficili da abbattere e una che si tenta di “rialzare” al confine di stato del Brennero. Periferia seria di una nazione.
Brattaro mon amour
di Paolo Cagnan
regia di Andrea Bernard
repliche in provincia di Bolzano fino al 20 maggio
www.teatro-bolzano.it
Visto al Teatro Studio di Bolzano il 28 aprile 2016