RUMOR(S)CENA – FIRENZE RIFREDI – Nel racconto notturno di Chamaco il sole dei Caraibi non c’è. L’Habana di Abel González Melo è quanto di più distante dai cliché esotici e dalle rappresentazioni che, al cinema e in certa letteratura, ci avevano illusi di poterla conoscere. Persino la città “pubblica”, con le piazze piene di vita e di socialità condivisa, cede il posto a un universo di luoghi privati, di angoli bui dove appartarsi. Luoghi segreti che tutti conoscono, nei quali la luce non può entrare ma soltanto penetrare, esattamente come farebbe un poliziotto corrotto. Eppure è proprio grazie a quell’assenza di tratti riconoscibili che l’Habana di Melo ci appare reale: non è più una cartolina scintillante, ma una metropoli, frutto di stratificazioni umane ed emotive che Chamaco non cita, ma preferisce abitare. Le altre Habana, quelle cantate, dipinte, immaginate restano sullo sfondo e attendono il momento opportuno per assalirla e sostituirsi a lei. E’ già successo, del resto, e succederà ancora.
I personaggi di Chamaco sentono di vivere in una perenne fase transitoria (“uno qualsiasi di questi anni”) che all’interno del sistema chiuso e circolare della città, dell’isola e della storia, può evolversi solo in due modi: la morte o la sostituzione. La morte arriva la notte di Natale, quando un ragazzo viene ritrovato in un parco disteso sull’erba e sul sangue. Ma il cadavere che sta all’inizio della vicenda si trova in realtà al centro di una linea preesistente che, in seguito al delitto, potrà solo scorrere più velocemente, aumentando di velocità secondo l’equazione della frenesia. Perché tutti i personaggi sanno che alla morte deve seguire la sostituzione, o ancora altra morte. Sono ossessionati, posseduti dalla frenesia di sostituirsi o di sostituire l’altro.
Per questo motivo, pur disponendo di otto personaggi che hanno peso e spazio pressoché equivalenti nel testo, il dramma non può definirsi corale: l’ingaggio è quasi sempre quello del dialogo, o meglio della lotta uno contro uno, della relazione di vampirismo, attiva o passiva che sia. C’è la figlia che si propone al padre come alternativa muliebre alla madre; il vecchio che ricatta suo nipote perché prenda il posto del cognato che fu oggetto del suo desiderio. E poi il padre del ragazzo ucciso, che riflette sulla possibilità di sostituirlo proprio con il suo assassino, allettato dalla sudditanza che quest’ultimo gli dovrebbe in cambio del perdono, e quindi dal raggiungimento di una paternità incontestabile, aumentata e suggellata dal sesso tra non consanguinei.
I personaggi di Abel González Melo rispondono a precise funzioni drammatiche, ma sono tratteggiati con un’intelligenza emotiva che li emancipa completamente dal venir percepiti come archetipici o simbolici. Potenzialmente si potrebbe avere sotto gli occhi tutta la loro profondità e non accorgersene, o addirittura fregarsene altamente per lasciarsi coinvolgere dalla storia, bella e terribile. Chamaco picchia forte ma è leggerissimo da usufruire: si vuole seguirlo e, cosa non da poco, si vuole vedere come va a finire.
Chamaco-una storia cubana è il primo dei due testi di Melo nella rassegna Drammaturgia/Drammaturgie ed è stato proposto sul palco del Teatro Di Rifredi sotto forma di lettura scenica. “Bellissimo spettacolo” si commenta all’uscita e Angelo Savelli, regista e traduttore italiano di Chamaco, ringrazia, ma subito corregge “È una lettura”. Va bene, non si può che dargli ragione. Gli attori con il copione in mano e i pochi elementi di vestiario che li caratterizzano, il parco utilizzo degli oggetti e dei meccanismi di scena, la sobrietà delle luci, e sullo sfondo l’immagine di un orologio in bachelite che segna l’ora degli avvenimenti dell’intreccio: tutto per concentrare l’attenzione del pubblico sulle parole del testo. Eppure, detto con l’affettuosa malizia di chi ha trascorso due ore a teatro nel miglior modo possibile, la sua regia non si è negata l’occasione di dimostrarsi quantomeno performante.
La lettura nelle mani di Angelo Savelli è un genere, con regole e caratteristiche che lui conosce e sa rispettare perfettamente, ma che al pari di ogni altro genere offre margini e possibilità peculiari. Quello che non si può fare diviene un modo diverso per farlo, quello che non si può mostrare riverbera del potere dell’assenza, la didascalia del copione che necessariamente deve essere letta, trascende la funzione evocativa e si fa attuativa. Risultante di questa dimestichezza nel maneggiare la forma della lettura scenica è anche la prova che il gruppo di attori ha offerto. Particolarmente felice l’assegnazione dei ruoli a questo ventaglio di interpreti, tutti orbitanti intorno al Teatro di Rifredi, che dall’acqua torbida e bollente di Chamaco riemergono restituendo, in generale, un’idea di compattezza e, per chi ha già avuto modo di vederli impegnati in altre produzioni, diverse conferme e qualche sorpresa. La capacità di Ciro Masella di stabilire tra grottesco e drammatico, Diletta Oculisti che sulla superficie del suo riconoscibile caratterismo appone piccoli tagli di suggestione espressiva, Olmo de Martino che misura il ruolo di un coetaneo col metro dell’attore e non del giovane attore, il senso del tempo e il controllo di Samuele Picchi, la particolare aurea di Mauro D’Amico che traspare anche in un dei ruoli forse più funzionale che curato del testo, e infine quell’ attitudine solistica incapace di solipsismo, che mette noi in condizione di godere di un Riccardo Naldini particolarmente emozionante, e consente di trovare il giusto ritmo a Lidia Castella e Fabio Magnani all’interno delle scene di dialogo che condividono con lui.
Quando il programma di Drammaturgia/drammaturgie è stato presentato, con la sua offerta di incontri che da Abel González Melo propongono una riflessione sulla scrittura per il teatro contemporaneo, c’è stata grande curiosità. Ma all’indomani del primo contatto col teatro di Melo e con la cura che Rifredi ha dimostrato nel confezionarlo, quello che ci aspetta nei prossimi giorni appare sempre più interessante. Dunque, adelante…
Vista al Teatro Di Rifredi il 6/05/2022