MILANO – Si dice tanto che il teatro è morto, moribondo, agonizzante anziché no; ma poi basta stare alla finestra per assistere a un profluvio di eventi, festival, nuovi spazi che spuntano un po’ dovunque. A Milano la situazione sfiora la bulimia. Ogni settimana una cinquantina di proposte, fra canoniche e indipendenti, senza considerare il teatro più commerciale e le miriadi di piccoli spazi a ribaltare, nel brevissimo, i giochi, spesso in affollatissimi week end. Con la bella stagione, ecco i festival: Primavera dei Teatri, appena conclusosi a Castrovillari e, a risalire lo Stivale, il Napoli Teatro Festival, il Fringe di Roma, Kilowatt a San Sepolcro, Il Festival internazionale del teatro in piazza di Sant’Arcangelo, Inequilibrio a Castiglioncello, fra gli altri, e poi ancora Drodesera Centrale Fies (a luglio), Colline Torinesi (in corso a giugno), Akropolis di Genova (nel mese di aprile), Terreni Creativi/Kronoteatro di Albenga (ad agosto), Biennale Teatro di Venezia e Short Theatre, a settembre a Roma, a chiudere la giostra. Eppure non si placa questa smania di spettacolo dal vivo e, nell’orgia di visione, Milano sembra ritagliarsi un nuovo primato.
Ricorre quest’anno il ventennale di “Da vicino nessuno è normale”, festival negli spazi dell’ex struttura psichiatrica Paolo Pini e, solo a pochi chilometri da Milano, a Vimercate, il venticinquesimo di “Una città per gioco”, festival nazionale di teatro ragazzi; sempre in Brianza “I luoghi dell’Adda” e da vent’anni quasi anche l’“Ultima luna d’estate”. Ma non basta: quattro anni fa inaugurava IT Festival, vetrina/rete delle compagnie indipendenti residenti sul territorio della magalopoli, e, da quest’anno, Milano Off Isola Festival, dal 2 al 12 giugno, nell’omonimo quartiere in ascesa. ( http://milanooff.com/). Ancora un festival, ancora una festa: un modo per coinvolgere la popolazione – il quartiere, anzi tutto, ma poi nell’abbraccio è compreso chiunque sia spinto da curiosità e animato da bruciante teatrofilia – nella visione di spettacoli provenienti, nella maggioranza dei casi, da altre piazze.
Voluto con forte convinzione dall’organizzatore Renato Lombardo, direzione artistica Francesca Romana Vitale, al grido di “#FILgood”, questo neonato festival, ha l’ambizione di “aumentare la Felicità Interna Lorda (FIL)” come esplicita fin dal sottotitolo. Lo fa, mixando eventi differenti, teatrali e non, con l’intento di coinvolgere gli abitanti del quartiere Isola in una riscoperta degli spazi e degli esercizi commerciali, così da rendere la convivenza più condivisa e a misura d’uomo.
Per quel che riguarda la programmazione teatrale, “Milano in”/”Milano off” è la dicotomia/sinergia fra gli eventi-traino dei big, a titolo gratuito, nei luoghi cult del Pavillon in Piazza Gae Aulenti, e le compagnie indipendenti. Così se nelle prime tre serate si sono esibiti, Stefano Bollani, il maestro della nouvelle clownerie Jango Edwards e l’inedito duetto Dario Fo/Enrico Intra, a seguire quattro serate di gara fra dodici compagnie distribuite in quattro differenti location. In palio ancora una volta la possibilità di esibirsi: nella prossima stagione del Teatro Libero, al Festival Off di Avignone e all’Italian Theater Festival di New York 2017.
Ma quali sono le linee guida che affiorano dalla visione di questi spettacoli? “Monologhi, anzitutto!” – ben sei su dodici -, sembra essere la parola d’ordine. Un po’ una scelta “obbligata” – questione di costi, certo, e conseguentemente di distribuzione -, ma poi declinata in direzioni divergenti. Un tris di coppie – due al maschile – e poi collettivi. Interessante soffermarsi a considerare i temi trattati, le modalità di realizzazione e i linguaggi espressivi scelti. In fondo la dicotomia è sempre quella, teatro di parola versus performance. Affabulato e drammatizzato o declinato nel tono più prosaico della stand up commedy o della narrazione a tu per tu, come se non esistesse più la quarta parete, sono le modalità dei monologhi, che spesso giocano a cercare nel pubblico quella spalla che manca; in alternativa sono gli oggetti di scena a colloquiare come dei compagni che i costi di produzione non consentono. Così se Savi Manna ha il suo “Turi Marionetta” con cui interagire e la presenza/assenza del nipote laureato – una sorta di “waiting for…” -, Mauro Parrinello in “Shylock” duetta col pubblico, sì, ma anche con gli oggetti di scena. Non importa se siano il burattino del Mercante di Venezia, una Bibbia alla Giobbe Covatta style, piuttosto che i ritratti dei più famosi interpreti di Amleto in lingua inglese; tutti, di fatto, vengon cavati fuori, come da un cilindro magico, da scatoloni dalle graffianti didascalie, che costituiscono, in tutti i sensi, i mattoni della pièce.
Se Caroline Pagani in “Luxuriàs. Lost in last” è una dantesca Francesca, costretta a prendere un pupatolo gonfiabile per dar sembianze all’inconsistente Paolo, pure la “Nina” di Rossella Rapisarda interagisce sia con un spettatori attivamente inclusi nelle sue scorribande in platea, che con una moltitudine di cose che si animano, a magicamente creare quel mondo di spettri teatrali, di cui si e ci nutre. Non così Cinzia Damassa, né Elena Dragonetti. L’una nella rielaborazione in gonnella del trombettista narratore di “Novecento” di Alessandro Baricco, l’altra attraverso “Dieci” e più personaggi rubati a dieci spaccati dei bassi napoletani, ovvero dieci possibili quadri esemplificativi dei dieci comandamenti, non si appoggiano che alla propria abilità attoriale, duettando, al più, con cambi d’abito in scena. Eppure quel che vien vien fuori sono esiti del tutto dissimili. Ad una certa auto referenzialità culturale di “Turi Marionetta” e “Shylock” – il primo a causa di un catanese troppo stretto, il secondo in un modus alla stan up commedy, con un gusto, un ritmo, un’ironia ed una prossemica decisamente d’oltremanica – corrisponde una certo più condivisa fruizione degli altri. Certo ironica e brillante la corda di “Luxurias. Lost in last”, che, coi due monologhi appena citati condivide un’apprezzabile l’intenzione divulgativa, al di là degli esiti. Occasione un po’ sprecata pure “Novecento”, la cui declinazione al femminile non aggiunge nulla alla poesia di Baricco, mentre risulta, a volte, poco credibile lo iato fra il tono prosaico – fin all’accento meneghino -, che fanno subito “sciura” della porta acanto e le vicende di cameratismo tipiche di dinamiche prettamente maschili. E poi “Nina”, poesia assoluta, surreale, naif e disarmante in quell’atto d’amore impacciato e incondizionato al teatro, che sapientemente Nina/Rossella Rapisarda sa cinguettare, suscitando emozioni multi tono e contagiose. Sempre a proposito di pure emozioni, non meno efficace, nel gesto scenico, e generosa nell’interpretazione, Elena Dragonetti: nel suo “Dieci”, ci traghetta per i bassi di Napoli, tatuandosi sulla pelle personaggi dalla portata spiazzante, forte anche di un testo scritto in modo superbo e di una location quanto mai azzeccata – i muri scrostati della Fonderia Napoleonica, su cui i tagli di luce aranciata fanno già città vecchia.
E poi performance. “Mind the gap 2.0” di Paola Tarantino/Laura Isaia ci accoglie in un percorso iniziatico per farci toccare quasi con mano il mood di quegli illustri innamorati dell’auto tragedia, le cui inventate ultime ore insieme vedremo consumarsi sul palco. Sono l’intensa Sylvia Plath/Carolina Cametti, il convincente Gianluca Enria/Mark Rothko, una Marina Cvetaeva/Diletta Acquaviva di carattere – già viste nel “Miseria e nobiltà” di Sinisi -, il millimetrico e delicato RiccardoPumpo/Abdallah Bentaga, Sarah Kane/Emanuela Valiante e il suggestivo “traghettatore” Alfred Jarry/Claudio Lo Savio. “Trentatrè” – come gli anni di Cristo – di Fabio Filosofi Del Ferro, regia di Gianni Licata, stupisce per il linguaggio performativo e riccamente simbolico, ma con stilemi immediatamente decifrabili; se la tematica non è certo nuova – la ben nota querelle a proposito dell’ipocrisia dell’istituzione di contro all’in fondo tradita genuinità della predicazione di Cristo -, la restituzione coreografica, che mixa teatro fisico e proiezioni video, fa arrivare forte e chiaro il messaggio. “Rumori” di Teatro del Simposio, con tono sospeso e dall’amarezza quasi imperturbabile, sonda il peso delle scelte e l’assurdità di un eterno ritorno quasi limbico, da cui forse nessuno esce vivo; efficace il gesto inesauribile del lancio della monetina, accompagnato dal mantra: “Testa… testa… testa…” contro ogni ragionevole evidenza.
Di tutt’altri toni il surreale duo Collettivo Clown, che, col loro “Clown Spaventati Panetieri”, ha saputo intrattenere grandi e piccini in un rutilante susseguirsi di gag, esercizi di giocoleria, acrobazie e corpo libero in un coinvolgente divertimento per tutta la famiglia, dall’evidente formazione tecnica, in più. Completano il quadro “Cinque allegri ragazzi morti”, che Eleonora Pippo traspone a partire dall’omonima saga a fumetti di Davide Toffolo e “Shoot the Queen” del duo acquasumARTE. Una sorta di micro musical, il primo, a indugiare fra noir e fantasy, com’è nelle corde di certa reattività adolescenziale, sciorinando tutte le competenze musico performative, che possono essere apprese in accademia: bravi ed emozionali gli interpreti, che, eccetto il generoso Libero Stelluti, hanno ancora l’inegenua freschezza dei neo diplomati. Il secondo, invece, decisamente è opera matura di un’altra generazione: a citazioni colte e video indagini mixa una restituzione performativa e a suo modo sofisticata del tema: “Ma l’arte è un prodotto economico?”, senza, comprensibilmente, fornire risposte, ma chiedendo al pubblico, a fine spettacolo, di lasciarsi coinvolgere in un confronto improvvisato sul tema.
Chi vince, in tutto questo? “Vincono tutti!” è il messaggio della direzione artistica, che, a conclusione delle serate ha consegnato a ciascuno degli intervenuti un attestato. Focus sui soli punti di forza e mai di perfettibilità, a seguito di una precisa scelta deontologica; per sopraggiunti contrattempi di varia natura, l’assegnazione ufficiale della programmazione nei due festival e nella stagione teatrale è rimandata a data da destinarsi. Ma, al di là di tutto, chi vince davvero sono tutti coloro che ancora hanno ancora voglia di cibarsi di teatro, sempre e comunque, curiosi, quasi declinazione sublimata, di una sorta di street food dell’anima, che, non meno di quello che stuzzica le nostre papille ancora sappia analogamente accendere le nostre sinapsi.