Recensioni — 10/06/2024 at 07:17

Rohtko: l’arte all’epoca degli NFT farà ancora piangere?

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RUMOR(S)CENA – PICCOLO TEATRO – MILANO – Lo spettacolo Rohtko del regista polacco Lukasz Twarkowski in scena al Piccolo Teatro di Milano diretto da Claudio Longhi, ha sbalordito tutti, e l’applauso interminabile del pubblico in piedi alla fine delle 4 ore, lo ha dimostrato, decretando un successo in qualche modo, annunciato. Rohtko parte da una vicenda della vita e soprattutto dell’arte di Markus (Mark) Rothko (1903-70), ebreo russo emigrato negli States e diventato famoso negli anni Quaranta e Cinquanta, per i grandi formati delle sue tele astratte: una sua opera Untitled 1956, acquistata nel 2004 venduta per 8,5 milioni di euro a una coppia di collezionisti americani Eleonore e Domenico De Soles, viene dichiarata falsa dopo 7 anni. Ann Freedman, ex presidente della galleria newyorkese Knoedler & Co, rimase coinvolta nello scandalo: tutti i personaggi di questa vicenda sono presenti in scena come protagonisti di una specie di fiction, immortalati tra i diversi avventori del locale cinese alla moda frequentato dagli artisti dell’epoca.

© Artūrs Pavlovs

Si scopre che il quadro davanti al quale la facoltosa coppia afferma di aver pianto e passato ore commuovendosi, era una copia fatta da un artista cinese immigrato negli Stati Uniti, Pei-Shen Quinn, intervistato per il documentario Made You Look: A True Story About Fake Art del regista Barry Avrich. Quelle lacrime, dunque furono versate invano? Quelle stesse lacrime che Rothko affermava di versare copiosamente quando dipingeva, imprimendo nelle tele la sofferenza e il dramma.

Questa vicenda del falso d’artista, annunciato sin dal titolo volutamente errato (Rohtko e non Rothko)  è lo spunto per parlare a teatro, del sistema dell’arte oggi, del rapporto verità/finzione, dei rapporti tra arte e ideologia, tra economia e istituzione museale, partendo dalla biografia del grande artista che tentò di sottrarsi alle attenzioni del mercato ma le cui opere sono oggi tra le più quotate, e che non ancora settantenne, si suicidò; lo spettacolo apre una riflessione non solo sui falsi d’autore ma anche sull’arte all’epoca della sua immaterialità, dell’economia digitalizzata, in sostanza sull’avvento degli NFT. Siamo di fronte all’ennesimo paradosso della storia dell’arte: l’inquieto Rothko la cui opera è stata letta da tutti i critici come prossima alla trascendenza, cioè mistica, sublime, estatica, diventa simbolo, suo malgrado, della relazione malata tra arte e mercati finanziari.

© Artūrs Pavlovs

L’episodio chiave per entrare nella personalità dell’artista, è la commissione di una serie di tele che Rothko si rifiutò di consegnare, avendo saputo che avrebbero ricoperto le pareti di un costoso ristorante alla moda, il Four Seasons, ritenendola una vile operazione commerciale: la sua opera era incompatibile per quel luogo. Questo passaggio -riportato nello spettacolo – è indicativo del difficile e controverso rapporto tra committenza (pubblica o privata), artista e opera, quest’ultima trattata sempre più come oggetto mercificato da mercanti e direttori di museo senza scrupolo. Lo spettacolo cerca di decriptare o svelare i rapporti sociali che il sistema dell’arte induce, il valore dell’opera che nasce effimera ma che si vota all’eternità con quello che l’artista e filosofa Hito Steyer ha definito ironicamente  “il magico incantesimo crittografico degli NFT”.

Ma si interroga anche sulla perdita di valore del gesto umano quando le immagini nascono direttamente al computer, grazie a un prompt senza alcun rapporto col soggetto creatore. Una semplificazione forse estrema ma su cui si sono interrogati criticamente sia il filosofo coreano Byung Chu Lan che la stessa Steyerl, osservando come il processo algoritmico generativo delle immagini non sia altro che un filtro sociale (e artistico) approssimativo.

Data la specifica qualità di live cinema, lo spettacolo ci consegna una serie di scenari in movimento che mettono in discussione ogni volta, la percezione della realtà. Come in un film che si crea sul momento e che si snoda fotogramma dopo fotogramma con una impressionante precisione tecnica, addirittura millimetrica, quasi corrispondente allo scrupolo maniacale con cui Rothko preparava i colori per la pittura su tela, il racconto in questa esposizione-scena-film rileva un’unità discorsiva coerente, pur nella decostruzione necessaria, nella frammentazione filmica, nella discontinuità corpo-immagine, negli sbalzi temporali. Spettacolo come un processo di montaggio lungo e paziente ma rigorosamente dal vivo che si arricchisce continuamente di punti di vista, di soggettive, di inquadrature che frantumano la realtà in mille pezzi.

© Artūrs Pavlovs

Le intersezioni visive dei cubi scenografici, continuamente riempiti e svuotati di frammenti di immagini di realtà come in un gioco di scatole cinesi, fanno sì che il medium film scompaia sotto i nostri occhi, letteralmente spazzato via da una pluralità di altre attività simultanee in cui si intrecciano persone, immagini e cose in uno scambio di relazione qui e ora certificato dall’essere a teatro. Il cubo bianco della galleria ospita una tela che ospita uno spazio che si apre all’ esterno riflettendosi in un monitor all’infinito: del resto come diceva Rothko i suoi quadri sono facciate, porte, finestre, aprono a visioni e mondi inaspettati.

Passato e presente non si contraddicono, il racconto rilegge come pezzi di un puzzle, la catena di montaggio di produzione dell’arte: rimarremo sul piano della teoria se non ricordassimo che gli attori uscendo dai loro cubi si appropriano di spazi di vita reale e in alcuni momenti si rivolgono al pubblico. Una costruzione brechtiana che ci  consegna la rappresentazione della realtà, e contemporaneamente la sua versione digitale. Siamo di fronte al racconto vero della storia o a una sua finzione? Cosa ci commuove di più, il vero o il falso? Trapela non sotterraneamente, la critica al certificato di autenticità crittografico (NFT), che non abolirà il problema dei falsi e non genererà affatto nuovo valore all’arte.

© Artūrs Pavlovs

Quello che colpisce nello spettacolo (difficile da ricostruire nelle singole parti data la complessa stratificazione di vicende) è la messa in pratica di quello che scriveva Nicolas Bourriaud a proposito dei media nell’arte, ovvero una tecnologia che diventa interessante “nella misura in cui ne mette gli effetti in prospettiva, invece di subirla come strumento ideologico”. In sostanza, si attiva l’effetto critico dovuto alla “legge di dislocazione” solo nel momento in cui l’arte non accetta le convenzioni della tecnica ma “ne sposta la posta in gioco”.

Possiamo dire infatti., che lo spettacolo di Twarkowski è l’equivalente scenico dell’arte di Hito Steyrl, ovvero una pratica artistica critica,  insurrezionale, libera e autonoma “non moneta di scambio”. Forse il lavoro teatrale (scenografia compresa) si ispira a Brian O’Doherty e ai suoi saggi sul ruolo della galleria nel sistema dell’arte scritti  nel 1976 per Art forum, tra cui Inside the white cube e che ebbero enorme impatto nel mondo dell’arte contemporanea dell’epoca. Il cubo bianco del museo/galleria è quella convenzione in uso ancora oggi, che esclude l’esterno e lo rende pulito e impermeabile ai suoi rumori, ovattando il mondo. O’Doherty afferma che “Spesso l’opera d’arte assente è più presente per noi”, riferendosi espressamente a Rothko e alla sua opera “silenziosa”, e usandolo proprio come incarnazione di questo concetto.

© Artūrs Pavlovs

Smaterializzazione dell’oggetto d’arte: in più occasioni -soprattutto nella seconda parte dello spettacolo – la sensazione è quella non di trovarci di fronte a un racconto dell’arte ma dentro l’opera, dentro le sue incoerenze di sistema, dentro il gioco di specchi della realtà e dei suoi molteplici doppi digitali. Un gioco alla Cocteau o alla Lewis Carroll in cui tutti gli oggetti “vanno dall’altra parte”; siamo dentro un loop video, navighiamo prigionieri del web tra una catena infinita di finestre che il nostro browser ci apre. Diceva Rothko: “Comunque si dipinga un grande quadro, ci si è dentro”.

Raramente in teatro ci si è trovati di fronte a una produzione così perfetta, raffinata e “accordata”, dove tutto sta al posto giusto, dove anche gli sguardi in macchina degli attori sono calcolati al secondo, e le telecamere impegnate nella stessa stretta stanza-cubo, non si “impallano” mai, ma agiscono come in una danza attorno agli attori. Sarebbe un’ingiustizia non citare la bravura degli attori nella recitazione teatrale, nell’incarnare sia il personaggio che l’attore che interpreta il personaggio che altro non è che una persona realmente vissuta. Identità che si incrociano e si moltiplicano all’infinito rincorrendo passato e presente in una pluralità temporale: un giornalista racconta la vicenda del quadro, ci illustra l’identità delle persone coinvolte, ma poi è lui stesso dentro la storia che sta raccontando, incontrando i personaggi, e lo stesso Rothko, diventandone testimone oculare. Vediamo l’acquario del bar e siamo dentro quell’acquario. Applausi.

Rohtko di Lukasz Twarkowski al Festival Presente indicativo del Piccolo di Milano.

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