Cinema, Recensioni — 10/07/2020 at 21:18

“(Sic Transit) Gloria Mundi” di Robert Guédiguian. “Esci” dal mondo, non c’è altra via

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RUMOR(S)CENA -SIC TRANSIT GLORIA MUNDI – Piccolo consiglio rivolto ai giovani critici, chiamati a fare i giurati per festival o rassegne: conservate le migliori energie e spunti di scrittura per quelle opere poste alla conclusione dell’evento. Sono tutt’altro che “riempitivi”: lasciano spesso segni profondi e, talvolta, si rivelano le sole, effettive vincitrici. Ciò avvenne, ad esempio, alla Biennale Cinema di Venezia nel 2011 con il denso Solo una persona (P-047) del thailandese Kongdej Chaturumsami, storia di due giovani precari – Lek, un fabbro, e Kong, ex segretario di edizione – alle prese con un folle passatempo e le sue conseguenze: verificata la lunga assenza di un estraneo qualsiasi, prendere per un giorno “a prestito” la sua casa, “assaporandone” l’arredamento, le cibarie, gli eventuali angoli verdi, a condizione di non rubare alcunché. Ferro 3 di Kim Ki-Duk sette anni dopo, insomma. Ma più amaro.

Ugualmente, il tiglioso (Sic transit) Gloria mundi di Robert Guédiguian ha ravvivato la fiamma della XIX edizione delle Giornate Mantovane del Cinema d’Essai. Non convince fino in fondo ma, con ardore, usa la mazza chiodata laddove altri, più per timore che per astuzia, sono ricorsi al fioretto. Messo da parte ogni eufemismo, il regista de Le passeggiate al Campo di Marte traspone in immagini lo stato in cui versa la Francia del primo mandato di Emmanuel Macron e, in un’ottica più vasta, l’Europa del nuovo millennio già avanzato: tutto è “cash”, foga di guadagno, bestiali copule, false euforie d’ogni sorta. In una frase, non c’è persona o potere oggi che non sia determinato a convertire ogni aspetto della vita in qualcosa di “mercificabile”. Se i poveri sono “brutti, sporchi e cattivi” come e più di prima è anche un po’ colpa loro: Ettore Scola lo sussurrò, 43 anni or sono, con ghignante indolenza; Guédiguian lo grida ora con voce strozzata e gli occhi pesti di pianto.

Lola Naymark e Grégoire Leprince-Ringuet. Crediti foto: Page Officielle de Robert Guédiguian

Il meschino intreccio – siamo nei paraggi di Balzac (bottegai, ex galeotti, bellezze venali) e di certa umanità “demoniaca” alla Dostoevskij – ruota, per contrasto, attorno ad un lieto evento: una bimbina, Gloria, viene al mondo. Ciò, tuttavia, non impedisce ai genitori di “corteggiare” la canna del gas: Mathilde (Anaïs Demoustier) lavora come commessa a mezzo servizio (in prova, oltretutto) per una merciaia; Nicolas (Robinson Stévenin) è un dipendente di “Uber” che attira presto su di sé spranghe e ceffoni dai “regolari” tassisti di Marsiglia. Daniel (Gérard Meylan), padre di Mathilde, viene da una lunga detenzione per omicidio plurimo (difese un amico durante una rissa, freddando i giovanissimi aggressori). L’ex moglie, l’infermiera Sylvie (Ariane Ascaride), si riavvicina a lui nonostante si sia, nel frattempo, rifatta una vita, divenendo madre di una seconda figlia, Aurore (Lola Naymark, indimenticata protagonista de Le ricamatrici), prossima a sposarsi col robivecchi (Grégoire Leprince-Ringuet) più sordido, avido e scurrile che si sia visto negli ultimi anni sul grande schermo (incarnazione fin troppo esplicita, nel suo profilo più laido e “deforme”, dei progetti economici di Macron). Basti sapere che, incoraggiata dal futuro marito, Aurore ricatterà una ragazza musulmana, passata in negozio per rivendere un tostapane, negandole i già miseri cinque euro pattuiti se non si toglierà il velo.

Gérard Meylan. Crediti foto: Page Officielle de Robert Guédiguian

Ambizioni alte, toni caricati, ai limiti della farsa, quando non volutamente “blasfemi”, Gloria mundi non risparmia niente e nessuno: le piaghe di Cristo – la cui croce presenzia, quasi “attonita”, in molte scene – sanguinano ancora per l’egoismo umano (“Non ho bisogno di vedere aldilà del mio naso, basta abbassare gli occhi verso il pavimento” borbotta Sylvie), i tradimenti accumulati, l’incapacità di godere appieno della bellezza senza piegarla al calcolo o all’utile (“A cosa ti servono?” si sente chiedere Daniel riguardo agli ‘haiku’ che imparò a comporre in galera), l’oggettivazione e al contempo la “de-realizzazione” del corpo donatoci (Aurore e Bruno, così si chiama il fidanzato, riprendono ossessivamente col videofonino i propri focosi giochetti), la sfiducia o addirittura il virulento rifiutodi qualsiasi piano di miglioramento, sociale o morale (“Sei un povero sognatore” così Sylvie apostrofa il suo caposala, portavoce del locale sindacato sanitario, e aggiunge “Vuoi davvero cambiare le cose? Apri una fabbrica, diventane il capo… e detta legge!”). La piccola Gloria guarda, intanto, il nonno mentre la tiene in braccio: sorride, ha fiducia. Non capisce ed è meglio così.

Su cosa, dunque, si può contare ancora? Sulla scorta di Elémire Zolla, Guédiguian e il fidato sceneggiatore Serge Valletti paiono insinuare, tra un episodio e l’altro, che bisognerebbe “uscire dal mondo” quanto prima: Daniel sceglie la “certezza” della cella (“Dentro o fuori per me non c’è differenza”) mentre i primi respiri di Gloria sono significativamente “cullati” dalla Pavane pour une infante défunte (1910) di Maurice Ravel. La scelta di quest’ultima va, tuttavia, ben oltre il “beffardo contrappunto”. Leggendo i musicologi Elita Maule ed Ennio Melchiorre, scopriamo che la composizione – dedicata alla principessa Edmond de Polignac e rievocante, forse, la storia dell’Infanta Catalina Micaela, morta in giovane età nel 1597 – non si piega alla tragicità del fatto bensì esprime un sentimento più sottile e profondo, una poetica “di estraniazione dal rumore del mondo”. Quando il giovane pianista Charles Oulmont eseguì la Pavane per Ravel a un tempo molto lento, il compositore gli disse: “Ascoltami ragazzo, la prossima volta tieni bene a mente che io ho composto una pavana per una principessa Morta, non una pavana Morta per una principessa!”. Un casto, impalpabile messaggio di vita vera passa, dunque, attraverso il richiamo musicale alla morte. Per molti è ormai troppo tardi ma per Gloria, principessa nata senza chiederlo nel Mondo Moderno, è ancora possibile cucire un paio di scarpine affinché danzi, sicura, “altrove”, la propria pavana. Da confrontare con Loveless (Neljubov’) di Andrej Zvjagincev.

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