RUMOR(S)CENA – BOLOGNA – È strano e talora straordinario percepire come nella, in fondo breve, stagione drammaturgica di Pier Paolo Pasolini, sei tragedie in tutto, la qualità profetica della sua arte letteraria e lirica non stia nell’oggetto del suo sguardo ma bensì nello sguardo stesso, una sorta di organismo ottico dalla paradossale capacità di leggere gli eventi nella loro possibile trasformazione, anzi nella loro probabile trasfigurazione.
In questa intuizione estetica io credo affondi il progetto/esperimento di Valter Malosti per E.R.T., di cui è Direttore Artistico, e che nel corso della stagione 2022/2023 riproporrà tutti e sei i titoli pasoliniani affidandone la messa in scena in prevalenza a giovani artisti. Calderòn è il primo ad essere rappresentato e di questo testo, significativamente, già Luca Ronconi, che lo affrontò nell’ultimo decennio del secolo scorso, avanzava considerazioni che oggi sono ancor più efficaci:
<<Quando ho fatto il Calderòn negli anni 90 l’ho fatto anche per una generazione che il Sessantotto non sa cos’è, per cui l’Olocausto è una cosa romanzesca, la guerra di Spagna non ne parliamo, per vedere se cose così sepolte, sconosciute, riescono ancora a comunicare qualcosa a persone che le esperienze non le hanno vissute. L’ho rifatto per questo il Calderon e la risposta c’è stata. Secondo me questa è una forza grande.>>
Se dunque il sogno, nel suo assai particolare transito calderoniano, è la lente di questo sguardo, la realtà che quella stessa lente attraversa non è tanto l’intimità freudianamente subcosciente, ma è la vita, che solamente filtrata in quella irrazionale prospettiva può assumere il suo senso, può essere cioè letta nella profondità delle sue trasformazioni che come energie la performano, modificandola in continuazione. È la storia al di fuori di ogni hegeliana linearità, quale emerge dalla oscurità del tempo e che la tragedia vuole e può intercettare.
Indubbiamente c’è ed è anche ideologia, in fondo, ma una ideologia che attraverso lo sguardo drammaturgico assume i toni lirici più congeniali a Pasolini, scrittore che si voleva porre e si poneva spesso, anche nell’altrui percezione, fuori dalla Storia come razionale evoluzione, e che, dunque, può dare struttura e significato coerente ad ogni sguardo, passato, presente e futuro che sia, in modo analogo alla cecità di Tiresia.
Così i personaggi sono quelli de La vita è un sogno che attraversano il tempo inseguendo Rosaura, in ogni suo sogno e ad ogni suo risveglio, per sorprendersi (e sorprenderci) ogni volta di una nuova verità che si stacca dall’orizzonte della Storia come un relitto nella tempesta, verità tutte capaci di svelare le degenerazioni che la Società Borghese ha imposto all’uomo, alla donna e alle loro reciproche relazioni. Degenerazioni che però rimangono senza un orizzonte di riscatto (“Il sol dell’avvenire”), non solo in una prospettiva brechtiana, che Pasolini critica ferocemente, ma anche se vogliamo nell’ottica di un superamento nella artaudiana crudeltà.
È dunque, quella di Pasolini una storia all’insegna del pessimismo esistenziale e della nostalgia, anche dai toni checoviani (“Bisogna rappresentare la vita non com’è, e non come deve essere, ma come ci appare nei sogni” recita il giovane artista de Il Gabbiano), così che nel sedicesimo episodio gli operai ripiegano idealmente, insieme a tutti gli altri, le loro rosse bandiere, perché anche il loro non è che un sogno. Una sorta di parola fine sulla lotta e sulla stessa coscienza di classe.
È, ca va sans dire, un testo complesso e stratificato, di grande forza anche figurativa nel recuperare ad esempio la visione di Velàsquez, per un teatro in cui ha campo la profondità, e anche la pesantezza quasi prevaricante, della scrittura e di una parola colta nella sua concretezza, segno di quella razionalità distanziante spesso rimproverata a Pasolini, che però può trovare la sua illuminazione nella voce e nella presenza dell’attore, quasi un corpo scenico che si trasfigura nel transito del corpo/parola. Il difficile compito di dirigere il transito scenico è affidato al giovane Fabio Condemi (premio UBU), che già con la parola pasoliniana si è confrontato e che lo assolve egregiamente, nonché a un gruppo di attori di grande efficacia recitativa, ben miscelato tra interpreti con più esperienza e conoscenza e giovani diplomati.
Questi ultimi mostrano, alla prima, forse ancora un po’ di soggezione e ancora non hanno sperimentato fino in fondo le potenzialità trasfiguranti e disvelanti delle loro voci recitanti rispetto a quella stessa parola. Con l’andare delle rappresentazioni certamente saranno capaci di trovare un più giusto equilibrio. L’esito complessivo è comunque di grande qualità.
Al teatro Arena del Sole di Bologna, il 2 novembre (anniversario della morte di Pasolini che a Bologna è nato e ha studiato) e fino al 6 novembre, con una eccellente risposta del pubblico bolognese.
Calderón di Pier Paolo Pasolini. Regia, ideazione scene e costumi Fabio Condemi, con (in o. a.) Valentina Banci, Matilde Bernardi, Marco Cavalcoli, Michele Di Mauro, Carolina Ellero, Nico Guerzoni, Omar Madé, Caterina Meschini, Elena Rivoltini, Giulia Salvarani, Emanuele Valenti. Scene, drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich. Prima assoluta.