Teatro, Teatrorecensione — 10/12/2013 at 22:46

La Sindrome di Wendy, di Angelica Liddel ci fa rimpiangere Peter Pan.

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Per chi non la conosce Angelica Liddel è l’acclamatissima enfant terrible del teatro spagnolo contemporaneo. Da anni porta i suoi debutti ad Avignone, riscuotendo grandissimo successo di pubblico e di critica, e quest’anno la Biennale di Venezia le ha assegnato il leone d’argento per l’innovazione teatrale. Grande aspettativa quindi e grandissimo passaparola per questo “Todo el cielo sobre la tierra”, già visto al festival di Vienna a Maggio ed ad Avignone a luglio, che ha fatto il tutto esaurito per dieci giorni al Theatre Odeon di Parigi. Lo spettacolo, scritto dalla stessa regista, indaga il rapporto con la giovinezza e le sue illusioni. A questo scopo costruisce un parallelismo, non del tutto evidente, tra la favola di Peter Pan e quindi la Wendy/amante delusa dalla giovinezza, e il massacro di Utøia dove persero la vita 69 giovani tra i 14 e i 20 anni, idealmente cristallizzati in un’eterna giovinezza.

La scena della Liddel è occupata al centro da un mucchio di terra. È l’isola che non c’è o Utøia stessa, attorno alla quale, come naufraghi, si ritrovano delle figure più che dei personaggi: una Liddel/Wendy , un’altra Wendy che dialoga con una ipotetico Peter Pan vestito da cinese, una giovane ragazza forse superstite al massacro norvegese, una cinese che nella sua lingua ci racconta l’esperienza della nostra eroina in Cina in cerca di amore. Sotto gli occhi degli spettatori si susseguono dei quadri, allusivi, metaforici, talvolta ironici, accompagnati dalla musica composta da Cho Young Wuk (autore delle colonne sonore dei film di M.Park Chan-wook) e suonata dal vivo da un ensemble di otto elementi, fino a che lo spettacolo non si trasforma radicalmente e diventa un one woman show. La Liddel si strappa il vestito di Wendy: dell’illusa, di colei che ama l’inafferrabile, l’eterno adolescente. Si strappa il vestito della spensieratezza, e citando più volte Wordsworth, ci ricorda che la perdita dell’illusione, dell’amore e della giovinezza sono irreversibili e inevitabili.

Si trasforma così in una specie di erinni, capricciosa, nera, arrabbiata, che sputa sul pubblico la sua disillusione, il suo cinismo, il disprezzo per le convenzioni, per la santificazione borghese dell’essere madre e quindi buona, per la felicità a tutti i costi. Per più di quaranta minuti la Liddel/mattatrice improvvisa passi di flamenco, gioca con la voce, urla “fuck you” alla platea in calzamaglia nera e mutande di paillettes, ricordandoci una rock star un po’ démodé. Al di là di qualche spunto di riflessione interessante, lo spettacolo nel complesso fa fatica a raggiungere lo spettatore. La prima parte è sciatta, come se non esistesse una grammatica teatrale, nel corpo, nei tempi, nella costruzione delle scene. E questa, essendo chiaramente una scelta di stile provocatoria e “contro” risulta inefficace, perché non costruisce nulla sulle macerie di ciò che ha distrutto. Il contenuto si perde, in mille rivoli di significanti, rimanendo un’elucubrazione mentale della regista.

Nella seconda parte, che già soffre del fatto di essere praticamente un altro spettacolo rispetto al primo, ritorna in maniera ancora più dirompente un problema di autoreferenzialità. Sebbene appaia chiara l’urgenza della Liddel di esprimere un suo stato interiore, non appare in modo altrettanto chiaro la nostra urgenza di stare ad ascoltarla. Un grande impiego di mezzi quindi, per qualcosa che non ha la generosità di “darsi”, di uscire da un livello di speculazione mentale su un tema, e nemmeno dal livello di uno sfogo prettamente individuale di una donna arrabbiata con il mondo.

 Visto al Theatre Odeon di Parigi il 29 novembre 2013

 

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