RUMOR(S)CENA – Due giovani ragazzi romani, Manolo e Mirko, investono accidentalmente un pedone che sbuca dall’ombra in autostrada. Lasciandosi sopraffare dal panico, quasi certi di averlo ucciso, i ragazzi si dileguano senza offrire alcun soccorso alla vittima. Legati da una forte amicizia, che risale ai tempi delle elementari, decidono di non andare dalla polizia ma chiedono aiuto a Danilo, padre di Manolo. Qualche giorno dopo, la notizia della morte di un infame del clan romano arriva alle orecchie di Danilo, che riesce così a trasformare ciò che all’apparenza sembra una disgrazia in un’opportunità per svolta.
“La terra dell’abbastanza” è il primo lavoro a quattro mani firmato dai fratelli Fabio e Damiano D’innocenzo, che ottengono i primi consensi già durante la presentazione al Festival di Berlino 2018. Il film rientra tra i candidati nella sezione “Panorama” e l’accusa che viene mossa da i due registi e sceneggiatori del film, sembra aver colpito molto la critica internazionale e il pubblico in sala. Tra il cast compaiono figure celebri del cinema italiano, come Max Tortora e Luca Zingaretti, e nuovi volti promettenti, come quelli di Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano (questo attore ha già interpretato dei ruoli minori per il grande schermo nell’ultimo anno).
L’accurata attenzione che i D’innocenzo ripongono nella struttura dei personaggi è forse il vero punto di forza nella narrazione, senza svalutare tutti gli altri elementi presenti al suo interno. I protagonisti, Manolo (Carpenzano) e Mirko (Olivetti), incarnano alla perfezione i ragazzi di periferia che sognano una vita in grande, nonostante la loro precaria situazione economica. Il loro viaggio è paragonabile ad una giostra che si muove in senso inverso. Rincorrendo i loro sogni, i due non fanno altro che avvicinarsi sempre di più verso ciò che sarà il loro macabro destino. La strada per l’ambizione, che viene intrapresa dai giovani, fa concludere la loro avventura come una caduta in picchiata.
Paradossalmente si avvicinano al mondo della criminalità perché entrambi sono stati dimenticati dalle loro famiglie e decidono di crearsi una propria autonomia in strada, facendo affidamento solamente l’uno sull’altro. Lo stesso Angelo (Zingaretti), il boss che accoglie i due pischelli nel clan, li definisce dei cani sciolti incapaci di avere una coscienza di quello che fanno perché sono anime vaganti. Non avendo niente da perdere non si lasciano impaurire dalle dinamiche della malavita.
Il titolo è estremamente inerente agli argomenti trattati e alle emozioni che questa pellicola regala allo spettatore. La sete di potere che hanno i protagonisti è governata dalla loro incapacità di soddisfazione. Qualsiasi cosa accada nella loro vita sembra non essere mai abbastanza, a partire dai soldi. Questo sentimento di inadeguatezza, di frustrazione, non può che ripercuotersi sulle loro azioni, influenzandole negativamente. I registi giocano molto sulla somministrazione dei dialoghi. Mentre nella prima parte del film c’è l’abbastanza del parlato, nella seconda parte a predominare è l’abbastanza del silenzio. Effetto che spacca in due la pellicola e gioca come elemento di spaesamento per il pubblico di solito abituato ad ascoltare i pensieri dei protagonisti, in questo caso si sente escluso dai giochi, perché privato improvvisamente del privilegio ricevuto fino a quel momento. Qui i silenzi non fanno altro che occupare il posto dei sentimenti, che non riescono ad essere manifestati con l’utilizzo delle parole e contribuiscono a far accrescere la drammaticità degli eventi raccontati.
Un richiamo, voluto o casuale, è quello a “2001-Odissea nello spazio”. Una visibile similitudine estetica, tra il film di Kubrick e quello dei fratelli D’innocenzo, si può osservare nella scena in cui Mirko sceglie il dolce sbirciando le varie proposte dalla vetrina e, riflesso sul suo viso, compaiono le luci dei neon del bancone; molto simile, come scelta di luce e inquadratura utilizzata, alla scena che riprende il protagonista kubrickiano quando osserva lo spazio dal finestrino e ne riflette la luce in volto. La critica scelta dai registi è senza dubbio mossa alla società in cui viviamo, circondata molto spesso di elementi futili. Viviamo nell’abbastanza del superfluo che annebbia i nostri desideri portandoci sempre di più verso una sopravvivenza priva di emozioni. La criminalità, nel film, è un esempio lampante di abbondanza, ma è un messaggio che può essere esteso anche a tutti ambiti dell’esistenza umana.
Visto al Cinema Anteo di Milano