RUMOR(S)CENA – SOLE – Guardando Sole di Carlo Sironi, inatteso dono sugli schermi del Festival della Biennale Cinema al Lido di Venezia nel 2019, si capisce che i temi e il linguaggio della filmografia nostrana di fine anni ’80, primi ’90 (si legga, per un approfondimento, il saggio Cinema italiano anni Novanta di Vito Zagarrio), sono vivi e tali rimarranno almeno per un’altra generazione: la propensione a narrare “sottovoce”, pacatamente, lasciando che un’inquietudine, quasi metafisica, serpeggi nel contesto; la sciatteria solo apparente con la quale si colgono gli spazi suburbani: glaciali, bigi, fedeli specchi di un’epoca di ristagno, avvilita, fatua, confusa nelle cui pieghe, tuttavia, possono ancora nascondersi animi incorrotti. Elementi, questi, che caratterizzano le opere di Daniele Cesarano (Zugzwang), Silvio Soldini (L’aria serena dell’ovest), Pasquale Pozzessere (Verso sud), Francesco Calogero (Nessuno), Peter Del Monte (Compagna di viaggio). Sironi pare dialogare con esse e, umilmente, ne riapre il “cantiere” espressivo.
Una coppia (Barbara Ronchi, Bruno Buzzi), infertile e non più giovane, si affida a Lena (Sandra Drzymalska), sbandata ventenne polacca, disposta a cedere la bimba che porta in grembo per una lauta somma e un passaporto, così da fuggire in Germania dove l’attende un’amica. Ermanno (Carlo Segaluscio), nipote acquisito della coppia, si spaccia per il fidanzato di Lena, seguendola nelle ultime fasi della gravidanza, dagli esami integrativi all’addome, al parto, fino al primo svezzamento di Sole (così viene chiamata la piccina), periodo che comporterà, come d’accordo, l’allontanamento della madre biologica. Recita miserevole, direbbero in molti, ma che porterà tanto Lena quanto Ermanno a guardare al domani, forse, con maggior criterio…
La storia non vale più di un trafiletto di nera, disgraziatamente frequente, cronaca locale ma la bravura di Carlo Sironi risiede proprio nella capacità di trasfigurarla, guardando cioè alla poesia senza per questo smussare l’asprezza dei fatti. Citando il critico Maurizio Zanetti, il realismo della regia “gioca a nascondino” con la fiaba (dolente, comunque, e per adulti) e, complici la fotografia dell’ungherese Gergely Pohárnok (Euforia) e le scenografie di Ilaria Sadun, prende per mano lo spettatore, guidandolo in un interregno flebile, sospeso nel tempo, dove il borgo laziale che fa da sfondo alla vicenda perde, a poco a poco, consistenza, riconoscibilità, assomigliando sempre più ad un “villaggio fantasma”, un azzurrognolo “relitto” fluttuante sul fondo del mare. Ciò dimostra che lo stesso cinema, riservato e “forestiero”, del compianto Corso Salani (vedi Occidente) non è passato invano e il suo “faro” continua a lanciare bagliori.
Afflitto da un passaparola pressoché assente, Sole segna un ingresso composto ma non omologato: si può solo sperare che l’autore, per inibenti ragioni finanziarie, non dirotti, come altri nel ventennio appena trascorso, verso i più sicuri (ma vincolanti) lidi della farsa o del tubo catodico. Buona visione!