Indossa reggicalze nere e scarpe con tacchi vistosi come è vistoso “Lui”, eccessivo e trasgressivo qual’è ma potrebbe anche essere l’eccesso opposto, tanto è labile il confine che divide la normalità dall’esagerazione del suo modo di intendere il teatro. Legge la Gazzetta dello Sport seduto su un water mentre mugola versi che nulla lasciano all’immaginazione di quello che sta facendo. Entrano ed escono girano servi vestiti di piume come struzzi, personaggi trash e una Lady Dark dal costume nero lacca. Uomini che devono spogliarsi nudi e poi rivestirsi. “Lui” seduce, conquista, brama per amori agognati e consumati. Amori compulsivi. È Filippo Timi, un Don Giovanni irrefrenabile e incontenibile, lo sa e si compiace di esserlo. Non si nasconde, non finge, è a suo agio nelle tre ore di spettacolo visto al Teatro Franco Parenti di Milano.
Sembra voler sfidare a tutti i costi ogni regola, principio, all’insegna del trasgredire ogni convenienza come se fossero un fardello di cose vecchie da buttare via. Timi rappresenta se stesso senza maschere e artifici, un “prendere o lasciare” della serie “o lo ami o lo odi”, tanto è capace di polarizzare l’attenzione dei tanti fan uomini e donne, una popolazione teatrale che lo adora, lo insegue e lo adula. Il pubblico è tutto per lui, senza distinzioni di sorta, di sesso e di estrazione sociale. Piace e basta, qualunque siano le sue mosse, gesti, battute o ammiccamenti; l’istrionico attore ne concede abbondantemente per la felicità di tutti. Il pretesto per conquistarsi i favori e la simpatia è cosa facile per Timi, un gioco dove egli stesso si diverte per primo. La trama è quella dell’universale storia del Don Giovanni libertino e cacciatore di prede femminili, esercizio che nasconde la volontà di sfidare e forse di esorcizzare, tramite le pratiche amatorie – vantandosi di prestazioni infaticabili- niente meno che la morte.
Eros e thanatos sono le due anime speculari del protagonista che in Mozart e Da Ponte trovano la massima esaltazione. E Filippo Timi parte da questo capolavoro operistico del compositore austriaco e librettista italiano per poi trascendere in pieno fervore creativo. A suo libero e indomabile piacimento. Se il suo Don Giovanni è più uno sfatto e tossicodipendente è anche vero che tutto viene caricato di azioni reiterate e ridondanti. C’è tutto il repertorio del kitsch mescolato a iconografie barocche, manierismi ed eccessi estetici e sonori. Le musiche contribuiscono a creare ancor maggior spaesamento con una miscellanea di generi, da Celentano, Ridi pagliaccio, i Queen. La lirica si sposa (si fa per dire) al pop, fino alle canzoni per bambini. Una bulimia uditiva. Per non parlare degli improbabili inserti video scovati su youtube dove campeggia una pubblicità giapponese su un medicamento contro le deiezioni umane eccessive. Eccesso su eccesso che popola il castello immaginario dove abita Don Giovanni/Timi.
I compagni di viaggio (un cast di attori e attrici molto valido) che lo accompagnano devono impegnarsi in incessanti piroette in scena, diventano personaggi simili a maschere, dove le sembianze umane subiscono progressivamente distorsioni e modificazioni sempre più esilaranti. Esprimono i loro sentimenti ed emozioni con agiti che appaiono a tratti surreali, scombinati, poco realistici ma in tutto questo aleggia l’universo che appartiene all’uomo e alle sue debolezze/insicurezze. Si ride ma c’è poco da ridere se ci si ferma a pensare. L’uomo è votato all’autodistruzione e fa di tutto per riuscirci. Il suo Don Giovanni è tutto un programma e già nel titolo la dice lunga come Timi la pensi a proposito: “Vivere è un abuso, mai un diritto”. Detto e fatto. Di “abusi” se ne vedono tanti in scena tutti riconducibili ad una diatriba che si consuma tra seduzione e desiderio incessante di imporsi sulla vita degli altri con lo strumento del potere. L’uomo aspira sempre ad esercitarlo anche se poi il potere si ritorce contro di lui. Carnefice e vittima diventano facce della stessa persona. Timi crea una sorta di giostra dove luccica tutto in uno sfarzo scenografico di indubbio fascino se pur amplificato nei suoi effetti visivi e drammaturgici. I costumi creati da Fabio Zambernardi hanno un ruolo determinante nel suggestionare e trasmettere l’invadenza che aleggia in tutta la vicenda dongiovannesca.
Sono complicati da indossare e rallentano i movimenti degli attori che sembrano manichini e automi mossi da fili invisibili. Su tutti il protagonista, una sorta di deus ex machina, muove gli ingranaggi complicati di una messa in scena densa, satura, a tratti soffocante e anche un po’ prolissa per lunghezza temporale. Spettacolo che appare a tratti commedia e farsa dove far trascendere di tutto carico di sovrastrutture cerebrali e visionarie. Il Don Giovanni è prigioniero della sua personalità coartata e mai diventata matura e adulta. Viaggia in un suo mondo di sogni e incubi coloratissimi quanto artificiali. Gli altri protagonisti sulla scena concorrono a pieno a dare risalto a questa sua condizione. Amorale senza senso di colpa, peccatore soddisfatto di esserlo, privo di regole si può vivere fino all’ultimo spasimo, sembra dirci Timi. Sarà così? Lui ci crede veramente, anche nella vita di ogni giorno? Sono interrogativi che balenano per un istante e subito dopo spariscono per riapparire nuovamente. Lui spariglia le carte come un giocatore d’azzardo sempre teso a rischiare il tutto per tutto. Non potrebbe fare altrimenti. Sarebbe interessante che dopo questo meccanismo collaudato nel fare teatro Timi virasse verso nuove forme di spettacolo con uno scarto radicale rispetto al passato e presente. Le doti per farlo non li mancano.
In scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 24 marzo.
di e con Filippo Timi, con Umberto Petranca, Alexandre Styker, Marina Rocco, Elena Lietti, Roberta Rovelli, Roberto Laureri, Matteo De Blasio, Fulvio Accogli.
visto il 28 febbraio 2013