MILANO – Sicuramente “Bestie di scena”, ideato e diretto da Emma Dante, e in scena fino al 19 marzo al Piccolo Teatro Strehler di Milano, è uno spettacolo che ha fatto molto discutere. E, per certi aspetti, questo è anche un bene per un teatro, che voglia porsi non solo come intrattenimento, ma come riflessione comunitaria e condivisa. In mancanza di ulteriori dettagli sulla drammaturgia, fin dalla conferenza stampa l’attenzione di giornalisti e curiosi, è stata catturata dalla questione del nudo integrale. Lo ha spiegato bene Emma Dante: “Non si tratta di un nudo erotico, ma, al contrario, del nudo inteso come categoria dello spirito”, come assenza di protezioni, come ostensione della propria vulnerabilità. Quasi una deiezione esistenziale nel mare magnum dell’essere-nel-mondo, di cui, come si sa, nessuno possiede gli strumenti a priori. È questa, la sensazione che si trae da quei corpi denudati. In molti casi scultorei eppure non belli perché costantemente gravati dal peso della vergogna, evocano le figure de “La cacciata dal Paradiso Terrestre” dipinta dal Masaccio* (come loro si coprono gli occhi, oltre che i genitali) o quella raccolta e deformata dell’allegoria della disperazione, nel “Giudizio Universale” affresco realizzato da Michelangelo* nella Cappella Sistina in Vaticano.
Eppure manca, agli attori la contorsione facciale grottesca di questi modelli pittorici. Lungi dal pathos epico di quei grandi maestri, la regista sceglie di restare sul piano di una realtà prosaica, benché sospesa in quel non luogo così caro a tanto teatro contemporaneo. Così il colore è quello di una drammaticità solo a tratti esplosiva, ma più spesso soffocata e sofferta come di chi sia figlio più dell’anti eroe “novecentesco”, che di quel Prometeo classico capace di essere irriducibile anche quando stretto in catene. A tratti ricordano pure certe dinamiche de “La Linea” di Cavandoli (che in molti ricorderanno nei “Caroselli” RAI della nostra infanzia), di cui riproducono i vocalismi non sense, ma soprattutto le azioni, in quel loro quasi pavloviano rispondere a stimoli. È come se, una volta gettati nel mare magnum dell’esser-ci, non sapessero fare altro che raggrupparsi, in branco, istintivamente, come farebbe un qualsiasi altro animale sprovvisto di peli, unghie, artigli, zanne o corna. Scimmie nude: ecco cosa ci mostrano essere, questi attori. Omunculi in balia di un destino, che sembra giocare con loro come il gatto col topo; esserini impotenti, che se anche vanno via via trovando un ruolo o una cifra precipua, di fatto ne sono ingabbiati come nello scacco matto di uno schematismo inceppato. Alternano uno spirito di accoglienza, che sa più del bisogno numerico e dell’istinto difensivo del branco, che della pietas del homo civilis, a una meschinità che non è solo quella dell’impotenza, ma ci dice anche del rigurgito di rivalsa nei confronti del più debole. Forse è solo un modo per sublimare nella cattiveria la paura nei confronti di chi gli è troppo simile a noi, con la sua vulnerabilità, per lasciarci indisturbati; eppure crea un grosso equivoco.
Chi sono, queste “Bestie di scena”? Già il titolo è fuorviante ma in realtà siamo tutti noi.
Lungi dal rappresentare la condizione dell’attore (cosa dovrebbe farci capire che è specificatamente di loro che si sta trattando?), questa scrittura scenica (che è altra cosa da una drammaturgia), degli attori ci mostra solo i corpi, l’efficace performatività, la generosità, certo, anche la bravura, ma non è di loro, bensì attraverso loro, che parla. Comprendere questo è già un passo avanti, se si vuol rischiare di scivolare nell’equivoco che quelli in scena siano davvero degli attori, che recitano se stessi. In tal caso quel deus ex machina, che costantemente li pungola con oggetti di scena legati alla sommità di catene e con cui sono chiamati ad interagire con la stessa frenetica operatività dei topolini da laboratorio, non potrà essere identificato che col delirante maître , le directeur de scène e non si potrà che stigmatizzarne il preteso sadismo. Odioso come tutti i Mangiafuoco, che tirano i fili senza metterci nient’altro, non potrà che diventare il bersaglio del più sacrosanto rancore di quel rigurgito di paladini di giustizia, il quale alberga in ciascuno di noi. Eppure se ci si pensa bene non è così: il messaggio è che se il regista venga considerato uno Zeus (quantitativamente superiore al punto da essere sì, immortale e invulnerabile, ma non qualitativamente poi tanto diverso), visto che alla fine è costretto a farsi “compagno di giochi” di queste bestiole, pur di passare il tempo, quando al di sopra di lui aleggia la mano di un Fato bendato. Ecco perché forse neppure in questo caso si può parlare di sadismo: perché sembra non esserci intenzione, né progettualità in quel che accade. Accadono delle cose e se anche alla fine quel che vince, forse, è la presa di coscienza (e allora non occorre più coprire la propria fragilità con abiti colorati e neppure proteggerla con mani a cucchiaio), è come guardare un grande affresco: da un lato all’altro, senza rancore, né giudizio, ma solo con serena consapevolezza.
Del mestiere dell’attore, invece, del lavoro duro e generoso, delle dinamiche di fiducia e di abbandono, della capacità di ascolto o leadership, se ne parla, invece, in modo preciso, ma non così immediatemente leggibile, ahimé, nella parte di training iniziale. Non serve solo a riscaldare i muscoli o a far sudare gli attori al punto da far diventare quasi fisiologica, per loro, la necessità di spogliarsi (questo spiegava la regista in conferenza stampa, ma poi chi, pur nella più torrida delle estati, arriva a sentire l’esigenza di andare in giro completamente nudo?), quando è esattamente qui che ci mostra tutto quanto stia alle spalle di ciò che normalmente vediamo a teatro. Un atto prezioso e generoso. Forse, però, un germe regalato in maniera tanto spontanea e gratuita da non farne arrivare fino in fondo la portata a quel pubblico di non addetti ai lavori, che, non comprendendolo, spesso ha adoperato quel tempo non come un’esperienza di dono condiviso, ma come un bizzarro caso, in cui mentre gli attori si riscaldavano, ne ha approfittato per conversare con il vicino o scorrere il telefono per curiosare sui social o, nel migliore dei casi, sfogliare una pagina di un buon libro.
Visto al Piccolo Teatro di Milano, l’11 marzo 2017
*Masaccio: Masaccio, soprannome di Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai è stato uno degli iniziatori del Rinascimento a Firenze, rinnovando la pittura secondo una nuova visione rigorosa, che rifiutava gli eccessi decorativi e l’artificiosità dello stile allora dominante, il gotico internazionale. Partendo dalla sintesi volumetrica di Giotto, riletta attraverso la costruzione prospettica brunelleschiana e la forza plastica della statuaria donatelliana, inserì le sue «figure vivissime e con bella prontezza a la similitudine del vero» in architetture e paesaggi credibili, modellandole attraverso l’uso del chiaroscuro. Bernard Berenson disse di lui «Giotto rinato, che ripiglia il lavoro al punto dove la morte lo fermò». (fonte Wikipedia)
*Michelangelo: Protagonista del Rinascimento italiano fu riconosciuto già al suo tempo come uno dei maggiori artisti. Un artista tanto geniale quanto irrequieto. Il suo nome è collegato a una serie di opere che lo hanno consegnato alla storia dell’arte, alcune delle quali sono conosciute in tutto il mondo e considerate fra i più importanti lavori dell’arte occidentale sono considerati traguardi insuperabili dell’ingegno creativo.