Recensioni — 12/03/2022 at 09:46

Due supermarionette sulle sedie di Ionesco

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RUMOR(S)CENA – GENOVA – Che il teatro sia ‘assurdo’, ben oltre i limiti del “teatro dell’assurdo”, non vuole essere una affermazione ma è pur sempre una suggestione che nasce dall’etimologia latina della parola, che sta, a partire da surdus, per ‘stonato’, a indicare una sorta di scarto e di distonia che il palcoscenico intrinsecamente porta con sé. È uno scarto e una dissociazione che noi percepiamo, anche inconsapevolmente, quando decidiamo di entrare in un teatro e quindi di affrontare una finzione che è una realtà ‘stonata’ in quanto trascritta esteticamente e, dunque, distonica, ma non per questo meno reale, anzi proprio per questo più sincera.

Le sedie, drammaturgia a mio avviso fondamentale ed essenziale dell’intera produzione di Eugène Ionesco, costituisce un passaggio di questa percezione, in senso lato un momento di sincerità del teatro, di cui nel suo farsi scenico svela meccanismi profondi senza però dichiararlo.

Paradossalmente in questo passaggio estetico, infatti, la realtà non può essere mostrata o imitata in sé, in quanto ormai profondamente illogica, cioè lontana da ogni tradizionale logos, ma per essere in qualche modo percepita e in qualche maniera capita non può che essere rappresentata, appunto, assurdamente o illogicamente. Il franco-rumeno Ionesco, che tra l’altro ha vissuto una esistenza contrastata e talvolta infelice e oppressa, è esso stesso autore bilingue, come i due premi Nobel Samuel Beckett e Peter Handke, e doppio, anche dal punto di vista linguistico e sintattico, e può così aprire uno spazio, una distanza tra ricordo e immaginazione, tra passato e presente che può riempirsi di consapevolezza.

Un luogo fuori dal tempo e dallo spazio corrente (il teatro?), e due vecchi che riflettono su di sé e sul vuoto che li circonda ma non li annulla, al contrario sembra in fondo definirli, come individui e come esserci indistinto nel mondo. Riflettono sul vuoto e insieme quel vuoto riflettono dandogli la consistenza di una finalità attesa (l’attesa è la cifra di tanta riflessione filosofica del novecento e anche di oggi) e per questo concretamente reale.

Sedie accatastate e che si predispongono ad accogliere gli ospiti di un consesso in cui verrà rivelata una verità, la verità sul mondo che lo scorrere della vita (che non sappiamo) ha rivelato al protagonista. Poi la morte che entrambi si procurano (la rivelazione di senso?) mentre la scena si riempie del rumore delle sedie mosse da invisibili o inesistenti astanti.

La bella e poetica regia di Valerio Binasco, a partire dalla meravigliosa traduzione di Gian Renzo Morteo, dà alla narrazione una interpretazione che usa la sintassi del grottesco in un senso, se vogliamo, antimetafisico che mai vira verso il surreale ma, paradossalmente e assurdamente, sembra sempre richiamarci alla realtà, alla sincerità di una condizione umana che cerca e talora intravvede l’essenzialità della sua natura, tra sentimento e illusione. Interessante la scelta di non far apparire il terzo personaggio (il conferenziere sordomuto del testo originale) ma di riassorbirlo tra gli astanti invisibili quasi a ricondurre l’esplicita responsabilità del transito scenico ai due principali protagonisti.

La cifra recitativa suggerita poi, ed è nota e indubbia la capacità di Binasco di trarre le cose migliori dai suoi attori che per questo molto lo apprezzano, è quella anch’essa della distanza in cui l’umanità degli attori, bravissimi entrambi, si rifrange e perde nella mimica da Supermarionetta, quella auspicata da Gordon Craig, nella quale peraltro la loro stessa umanità si rinnova e riappare nelle forme di una luce nuova e talora commovente.

La scenografia infine accenna ad una fine del mondo annunciata ma destinata a non arrivare mai, forse perché il mondo, lì, non è ancora veramente iniziato. Nessuna distopia, tradizionale chiave di lettura, dunque ma sempre, drammaturgicamente e anche registicamente, uno sguardo prensile ancorato sul nostro presente. Uno spettacolo raro, assolutamente non datato quasi che i settant’anni dalla sua scrittura fossero stati compressi, nel poco spazio di un palcoscenico, come il tempo dei due suoi protagonisti.

Produzione TEATRO STABILE DI TORINO – TEATRO NAZIONALE. Traduzione Gian Renzo Morteo. Regia Valerio Binasco. Interpreti Michele Di Mauro e Federica Fracassi. Scene e luci Nicolas Bovey. Costumi Alessio Rosati. Musiche Paolo Spaccamonti.

Visto al teatro Eleonora Duse per l’ospitalità del Teatro Nazionale di Genova dal 9 al 13 marzo. Gli applausi sono stati molto intensi e calorosi a conferma che il teatro quando è vero e bello trova sempre consensi.

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