RUMOR(S)CENA – GENOVA – Il comico-tragico gioco della rappresentazione, e dunque della vita mentre transita occasionalmente sullo shakespeariano palocoscenico mondo, contiene quasi sempre un dolore che, come le doglie del parto, stimola, accompagna e guida lo sforzo di dare forma estetica ed atto ontologico alla sostanza sentimentale che ci precede e forma, a quella potenza che filosoficamente chiamiamo amore, per costituirci in esserci e, come la tessera di un mosaico collettivo, trovare il nostro giusto posto ed il nostro riposo nel mondo.
La dodicesima notte, nell’adattamento e regia di Giovanni Ortoleva, affronta di petto ed esplicita questo dolore che si fa aspro nella difficoltà che il necessario archetipo, che la può rendere percepibile ed esistenzialmente apprezzabile, non si faccia stereotipo rigido, nelle mille forme che storicamente ha assunto e che il confronto dai labili confini tra maschile e femminile in fondo riassume, in cui quella energia si esaurisce e muore di ineffabile nostalgia.
In effetti questa è l’ultima commedia brillante di William Shakespeare che si apre così alle riflessioni delle grandi tragedie e dei drammi storici, ed è dunque teatralmente una porta che svela nuovi scenari ed apre i giusti ed attesi sentieri.
Ortoleva la affronta scegliendo di esporre, facendo cioè coesistere in una scenografia a scale, gerarchicamente organizzata e chiusa da un cielo di algidi puttini, tutti i personaggi, sempre, in un rimando tra scene e controscene, quasi fosse un confronto all’americana, quello di tanti e ormai metaforici polizieschi, in cui il pubblico testimone è chiamato, innanzitutto a riconoscere, e poi a giudicare, ma non tanto quelli quanto piuttosto sé stesso.
Ne viene resa esplicita, anche nella gestione non facile del rapporto tra il Bardo e i propri committenti (il potere feudale di allora ma anche quello di oggi), una doppia gerarchia, o meglio una sovrapposizione tra la gerarchia del lignaggio, spesso impastata della volgarità dell’agire e del desiderare, che vede al vertice Orsino e Olivia, e quella del sentimento e della cura di sé, che i due gemelli Viola e Sebastiano incarnano e sviluppano nel loro felice percorso verso la primazia sociale.
Una gerarchia di classe senza altri ascensori, e la beffa ai danni del maggiordomo Malvolio lo dimostra, dentro la quale i diversi gradi di consapevolezza e di libertà costruiscono relazioni e legami intermedi ma sempre al servizio dell’equilibrio complessivo.
Così in un ripetuto confronto mimetico, costruito per ciascuno nel rispecchiamento nell’identico che paradossalmente lo trasforma, ogni personaggio vuole intercettare e potenziare l’amore, di sé prima che dell’altro che stenta a conoscere, riversandolo in quella sorta di sistema di vasi comunicanti, o di condotte forzate in cui con più forza quell’energia può sprigionarsi, che è la teatrale rappresentazione della vita stessa.
Scrive al riguardo René Girard, parlando del dialogo tra Viola travestita da Cesario e Olivia, clou di svolta dell’intero racconto: <<Negando a Olivia il dono della propria ammirazione, Viola spinge il desiderio della dama a spostarsi dalla dama stessa verso il desiderio che si oppone virtuosamente alla seduzione. Chi sarà mai questo Cesario, che resiste al suo magnetismo? Una singola voce dissonante nel concerto armonioso dei desideri docili che circondano Olivia basta per rovesciare il superbo edificio del suo narcisismo>>.
È un lavoro di frizioni reciproche, di attriti aspri nei quali il lirismo del verso sciolto shakespeariano si trasfigura quasi in un grido che porta allo scoperto la artuadiana crudeltà che quei sentimenti nascondono, la ferita che spesso siamo costretti a infliggere con il rifiuto per poter amare ed essere amati, almeno per un po’ del tempo che ci è offerto.
Il lieto fine che il Bardo si e ci concede dunque non è, in fondo, che la necessità cui è chiamato per chiudere quel breve tempo in cui la vita transita nel ridotto della scena, per poi perdersi come inutile lamento.
La dodicesima notte in fondo non è che questo dolore cattivo e sordo, sotto la lieve forma di una poesia e di un gioco di società, ed in un certo senso Ortoleva smaschera quel gioco e porta fuori, senza però direttamente elaborarlo, questo dolore che viene ancor più illuminato nell’equilibrato contrapporsi dei giochi d’amore di Orsino ed Olivia con la crudele beffa ai danni di Malvolio, che si dipana, quasi senza complicità, nel racconto di un fool-idiota, pianista accompagnatore e, più che tradizionale raissoneur, una vera e propria voce narrante e alter-ego.
E poi il rotondo danzare dei doppi, figura che torna spesso nelle commedie del Bardo, e cui i gemelli Sebastiano e Viola danno personalità scenica, è ben rappresentato dall’unico attore che li interpreta, essendo chiamato a paradossalmente ricucire identità, in se stessi e nell’altro cui ci contrapponiamo, che solo nella fluidità del loro movimento, che la occasionale contingenza del teatro anticipa, trovano paradossale concretezza.
Un doppio, il loro, che è unità del sentire ed amare oltre e nella mescolanza fluida di maschile e femminile, capaci ciascuno di riconoscersi nel reciproco e inevitabile confondersi che l’oggi comincia a mettere in luce.
Uno spettacolo talmente fedele dunque da apparire diverso, seguendo il filo di una traduzione che cerca l’asprezza e spigolosità sonora nascosta anche nella dolcezza della parola di seduzione che i protagonisti si lanciano l’uno contro l’altro, più che l’uno per l’altro.
Una regia interessante, ultra-naturalistica a suggerire sintassi primo-novecentesche tra l’espressionismo e il surrealismo, che si avvale di una scenografia inusuale ma figurativamente stimolante e di costumi dal forte simbolismo, tra richiami al passato e segni dell’oggi, e che guida una recitazione, da parte di un cast complessivamente di qualità, che molto si traduce nel corpo e nella mimica, utilizzate quasi a guida della stessa dizione di una parola che si fa molto fisica, molto concretamente impastata.
In prima nazionale alla sala Trionfo dei teatri S’Agostino, ospite della Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse di Genova che lo co-produce, dal 9 all’11 marzo. Molti gli applausi finali.
LA DODICESIMA NOTTE (o quello che volete) di William Shakespeare, traduzione Federico Bellini, adattamento e regia Giovanni Ortoleva, con (in ordine alfabetico) Giuseppe Aceto, Alessandro Bandini, Michelangelo Dalisi, Giovanni Drago, Anna Manella, Alberto Marcello, Francesca Osso, Edoardo Sorgente, Aurora Spreafico, scene Paolo Di Benedetto, costumi Margherita Baldoni, luci Fabio Bozzetta, progetto sonoro Franco Visioli, assistente alla regia Alice Sinigaglia, assistente scenografo Andrea Colombo, fonico Nicola Sannino, sarta realizzatrice e di scena Margherita Platé, coproduzione LAC Lugano Arte e Cultura, Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Centro D’arte Contemporanea Teatro Carcano, Arca Azzurra.