“Sono nata triste“, dice Donatella quasi alla fine del film.
“Sono nata triste anch’io“, le risponde Beatrice.
La pazza gioia di Paolo Virzì è ambientato in Toscana nel 2014. La storia inizia a Villa Biondi, una comunità terapeutica immersa nella campagna pistoiese dove sono curate donne con problemi mentali o sottoposte a misure giudiziarie, e si sviluppa tra Campi Bisenzio, Montecatini e la Versilia. Questo film segna un ritorno al mare e alla terra natale (dopo La prima cosa bella, che era ambientato a Livorno e Ovosodo), e ad una narrazione lineare con l’inserimento di pochi e indispensabili flashback (niente in confronto a Il Capitale umano in cui la storia è raccontata dal punto di vista di tutti i personaggi). Il regista mette a confronto due donne, Beatrice Morandini Valdirana e Donatella Morelli, che si incontrano all’interno di Villa Biondi per sottoporsi ad un percorso terapeutico di recupero, che prevede trattamenti sanitari ed attività di lavoro all’interno di un vivaio. Inizialmente il film non dice niente delle patologie delle due protagoniste, per una scelta registica efficace i loro trascorsi vengono svelati con il contagocce e attraverso parentesi comiche.
Non c’è niente di comune tra Beatrice e Donatella. Beatrice è una donna elegante e naïve, che si fa forte del suo eloquio e di millantate origini nobili per ottenere ciò che vuole, viziata dai troppi soldi e dotata di un’energia contagiosa e prorompente (anche a livello fisico), che Virzì affida all’attrice Valeria Bruni Tedeschi. Donatella è invece una giovane introversa e spigolosa, magrissima e fragile come una bambina mai veramente cresciuta. In questa interpretazione riesce bene Micaela Ramazzotti, non solo per un credibile accento livornese trasmesso dal marito ma anche per affinità rispetto ad Anna, la madre interpretata ne La prima cosa bella.
Grazie ad un autobus preso al volo e ad un’automobile rubata inizia la corsa delle due donne verso una destinazione ignota, che è un po’ liberazione da Villa Biondi e un po’ parentesi felice in cui vivere e sentire senza limiti, dandosi appunto alla pazza gioia. I film di Virzì non hanno mai un titolo casuale: se Il capitale umano era in realtà la rappresentazione al contrario di una società esageratamente ricca ma arida di valori umani, La pazza gioia segna un ritorno ad un umanesimo che era stato il filo rosso di buona parte della cinematografia del regista livornese. La pazza gioia non esprime mai un giudizio negativo nei confronti della pazzia, ma fa propria la capacità delle persone folli di vivere sopra le righe, mascherate da comparse a bordo di un’automobile anni ’50, la sensibilità al dolore e l’emozione smisurata nei confronti delle cose belle. La fuga architettata da parte di Beatrice è soltanto un mezzo per arrivare alla confidenza dei percorsi che hanno portato le due protagoniste a Villa Biondi: Beatrice ha dilapidato il patrimonio di famiglia e fatto naufragare il matrimonio con il marito avvocato per l’amore non corrisposto di un uomo, Renato (sullo schermo Bobo Rondelli), mentre Donatella soffre di depressione dopo il tentativo di omicidio-suicidio con il figlio Elia, avuto da un uomo sposato che non ha voluto riconoscerlo. Su un muro della passeggiata di Viareggio si scopre il comun denominatore tra le due donne: l’abbandono per avere amato troppo, un uomo, la famiglia, un altro uomo, senza ricevere mai amore in cambio.
Un elemento di grande forza del film è la sceneggiatura, scritta a quattro mani da Paolo Virzì e Francesca Archibugi. Il risultato che ne deriva è un testo che affronta un tema delicato come la pazzia in punta di piedi, in maniera poetica, con un’armonia di comico, drammatico e sentimentale. Le parentesi comiche sono quasi tutte affidate a Valeria Bruni Tedeschi, molte delle sue battute le sono state cucite addosso ed interpretate con una naturalezza tale che lo snobismo del personaggio finisce per diventare commedia. Il dramma invece è tutto nelle corde di Micaela Ramazzotti, sul lavoro introspettivo fatto sul personaggio che la differenzia molto dalla compagna di set.
Anche se il tema del viaggio è al centro della sceneggiatura, il film non può essere considerato un road movie secondo l’accezione americana. Virzì infatti guardia alla commedia italiana (tra cui Il sorpasso di Dino Risi, 1962) ed ambienta la storia nella provincia di cui ripropone anche la mentalità chiusa (basti pensare, una su tutte, alla scena della cartomante). Inoltre, Beatrice e Donatella non imparano di sé molto altro di quello che già non sanno, ma si scoprono lati nascosti del loro carattere come la generosità e la tenerezza.
Il finale poi lascia spazio al sentimentale della Archibugi: la comune esperienza di viaggio è servita ad entrambe le protagoniste all’accettazione della propria malattia e alla scoperta che l’amore tanto desiderato e mai avuto è rientrato dalla finestra della loro vita con una forma diversa, che sa di amicizia e comprensione per avere condiviso la stessa strada.