Neil LaBute, regista e drammaturgo statunitense, giunge in laguna per dirigere un workshop di drammaturgia inserito nel campus della Biennale Teatro 2012. Abbiamo colto l’occasione per farci raccontare qualcosa in più della sua formazione e del suo lavoro di autore.
Dal punto di vista della sua formazione come drammaturgo, c’è qualche autore che considera suo maestro?
«Non credo ci sia qualcuno che possa considerare come mio maestro in assoluto. E neanche che ci siano stati drammaturghi che sono stati cattivi o buoni maestri per me: io ho imparato moltissimo anche dai cattivi insegnanti. In generale, però, gli autori da cui ho appreso di più sono quelli che hanno valorizzato la mia scrittura, coloro che dopo aver letto i miei lavori hanno detto: “Questo è ciò che vedo nel tuo scritto, questo è ciò che credo tu stia tentando di fare, lascia che ti aiuti a rendere meglio quello che intendi dire”. Viceversa, non ho ottenuto molto da quelli che invece dicevano: “Se fossi stato in te avrei fatto in questo modo”. È evidente che una persona diversa da me avrebbe scritto in modo differente! In ogni caso, credo che il metodo migliore per imparare sia quello di seguire gli esempi. La mia scuola è stata leggere Checov e Shakespeare, e riflettere sui testi, interrogarmi ogni volta su cosa volessero dire e su cosa stessero cercando di fare. È fondamentale non rinunciare ad avere tanti maestri: c’è sempre qualcosa da rubare a ciascuno di loro.»
È evidente che dirigere un film o dirigere uno spettacolo implichi l’utilizzo di mezzi diversi e la predisposizione di dispositivi comunicativi e ricettivi differenti. Cosa cambia, invece, tra scrivere per la scena e scrivere per il cinema?
«Quando scrivo per me stesso non ci sono differenze. Scrivo esattamente allo stesso modo. Quando i miei testi sono destinati ad altri, invece, mi concentro sulle loro esigenze. In particolare, se si tratta di film di impianto tradizionale, so che c’è necessità di uno script fondato più sulle immagini che sui dialoghi. Al cinema la gente vuole vedere cose che succedono, non cose raccontate. Quindi scrivo avendo bene in mente quella direzione. Quando lavoro per me, invece, il mio testo è meno definitivo, più aperto: perché so che poi, dirigendolo, mi prenderò la libertà di cambiarlo, se ce ne fosse bisogno.»
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Quest’anno la direzione della Biennale Teatro di Venezia ha rinunciato al classico format degli spettacoli finiti e lo ha sostituito con una serie di workshops destinati a giovani registi, attori, drammaturghi e danzatori. Qual è la sua idea in merito? E, più in generale, che tipo di relazione crede debba esserci tra formazione e lavoro?
«A me piacciono molto i workshops perché consentono di lavorare in totale libertà senza la costrizione dello spettacolo finale. Non è necessario preparare per forza qualcosa da mostrare a un pubblico. E anche nel caso in cui sono previsti open doors non si deve necessariamente lavorare a un prodotto finito. Mi capita spesso, durante i laboratori che conduco, di trovare persone legate a un’idea tradizionale che si irrigidiscono di fronte all’approccio di mostrare al pubblico una performance non definitiva. Io invece ribadisco sempre che quello che proponiamo non è uno spettacolo finito, che non è chiuso e che è probabile che ci si dovrà tornare su più volte per arrivare alla versione finale.»
“Improv for writers: learning to write on impulse and without fear” è il titolo del workshop che conduce alla Biennale Teatro di Venezia 2012. Cosa intende quando parla di paura e cosa significa scrivere improvvisando?
«Fear e Impulse sono termini strani, in effetti, se considerati in relazione alla scrittura drammaturgica, perché gli autori in genere sono abituati a riflettere a lungo, a ragionare sulle loro stesse idee. Vorrei invece proporre qui a Venezia un lavoro simile a quello che ho fatto per il “Los Angeles Times”: in quell’occasione dovevo scrivere un testo in tempo reale, lavorando su trame e personaggi forniti dai lettori sul momento. Intendo spingere i ragazzi del laboratorio a fare qualcosa di questo tipo, a scrivere improvvisando: voglio che imparino a godere del processo piuttosto che del risultato.»
Lei ribadisce spesso, durante le interviste, la necessità di imparare a cogliere l’attimo, di godere dei singoli momenti, di vivere giorno per giorno: che momento vive Neil LaBute? Con quale spirito giunge a Venezia?
«Oggi come oggi faccio quello che mi piace. Vengo da un’estate trascorsa tra Barcellona, Madrid, Spoleto a condurre workshops come questo. Trovo che sia fantastico poter lavorare con persone ogni volta nuove: è sempre una sorpresa. In genere non penso mai a quello che sta per succedere, non cerco di prevedere quello che farò quando arriverò in un certo posto o in una certa situazione. Semplicemente mi godo quello che capita senza pensare a quale sarà il prossimo step.»
Qual è il suo film preferito? Escludendo i suoi, ovviamente…
«Se c’è un film che ho visto e rivisto infinite volte, è sicuramente La Dolce Vita di Federico Fellini. È una pellicola che mi piace vedere “per sessioni”, concentrandomi ogni giorno su una scena diversa. Ogni volta che lo riguardo penso che quello è proprio il film che avrei voluto fare.»
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