Recensioni — 12/08/2020 at 08:28

Kilowatt Festival: Sorprendersi nell’arte della tradizione

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RUMOR(S)CENA – KILOWATT FESTIVAL – SANSEPOLCRO (Arezzo) – « Narrare è distrarsi, farsi portare in un altro luogo, tras-locare. Se recitare è entrare in un altro personaggio, narrare è assumere in sé tutti i personaggi»1

Il trans-loco, andare al di là del luogo, entrare in una dimensione altra con un bagaglio ricco, quello dei personaggi, delle storie, delle gesta «Non uscire da se stessi ma compiere un viaggio attraverso i propri doppi». Narrare, dunque, è distrarsi. Anche ascoltare lo è, dunque azione necessaria per lo spettatore ovvero un duplice viaggio che viene raffigurato nel concetto di tradizione. Gerard Lenclud nel suo saggio La tradition n’est plus ce quelle ètait. Sur la notion de «tradition» et «sociétè traditionelle»en etonologie dichiara che la tradizione rimandi all’idea di una posizione e movimento nel tempo e di una trasmigrazione (o trasmissione). È un fatto di permanenza del passato nel presente, una sopravvivenza in atto, il lascito vivente di un’epoca conclusa, qualcosa di antico che si suppone essersi conservato, per lo meno relativamente immutato, e che per certe ragioni e secondo certe modalità, anche oggetto di trasferimento in un nuovo contesto. Ne risulta come la tradizione potrebbe essere l’antico presente in grado di persistere nel nuovo. È anche rilevante notare come la tradizione non sia in grado di trasmettere il passato nella sua integralità, ma attraverso di essa si determinerebbe una sorta di azione filtrante, il cui prodotto verrebbe a costituire così la tradizione. Come fa notare Lenclud, a questo punto, non è un caso se per noi occidentali, soprattutto confrontandoci con altre culture, la religione o il mito appare il terreno della tradizione per eccellenza. In più la nozione di tradizione evoca anche l’idea di un particolare modo di trasmissione. Così come non tutto ciò che sopravvive al passato è ipso facto tradizionale, accade anche per quello che si tramanda e viene ad essere obbligatoriamente tradizione.

Roberto Latini

Nel corso della diciottesima edizione del festival di teatro Kilowatt a Sansepolcro – con la direzione artistica di Luca Ricci e Lucia Franchi – si è voluto marcare questo desiderio di trasmissione, o meglio di innovazione attraverso quest’ultima. Il padrino di questo viaggio Roberto Latini il quale, nelle vesti di un cuntista o di un Virgilio, è stato capace di testimoniare come l’arte del passato o del presente sia da trasmettere, da tramandare, fosse anche in piedi con il solo utilizzo di un microfono e una totale consapevolezza nella lettura di parole, punteggiatura e silenzi mista a gentilezza e rispetto per ciò che è stato. Non solo: si è potuto apprezzare, durante la prima fase del convegno La tradizione e l’innovazione, l’intervento di Antonio Rezza che andava contro un intellettualismo finto, borghese, rimarcato dalla conoscenza di testi e ignoranza nell’azione: quest’ultima responsabile forse di un cambiamento. «Io ho tutti i libri di Artaud ma non ne ho mai letto uno. Mi fido– dice ridendo- io voglio perdermi in quello che vedo e non perdere tempo nella comprensione. Il nostro compito è quello di curare il corpo che sia un tramite per far destare lo spettatore e il compito della critica, dunque, deve essere quello di smascherare chi non lascia lo stupore».

Convegno La tradizione de l’innovazione

Alla fine non fu forse l’ultima opera di Pirandello (Non si sa come, 1934) a esordire in questo modo: «Perché volete costringermi a pensare umanamente? Io so che tutto questo non è umano. Tutti sanno che in cielo c’è la luna; e che sulla terra ci sono i boschi. Crediamo, almeno, di saperlo! Ma poi tutto ad un tratto ci accorgiamo di non averlo mai saputo veramente, quando ne abbiamo un sentimento vero, così raro, che ce ne crea d’improvviso, misteriosamente, la realtà; e la scopriamo allora, la luna, il bosco, la luna che è ‘quella’, ora sì, ‘la luna’! ‘Il bosco’, quello! Che non han più nulla da vedere con la luna e col bosco degli altri, come comunemente si sa che ci sono, l’una in cielo e l’altro in questa o in quella parte della terra. Ah, eccola, è questa la Luna!».

Roberto Latini Antonio Rezza

Rezza allora forse ha ragione: a volte il fruitore e parte della critica si perdono dietro ai mille perché di un attimo che è già effimero e non godono della sostanza di una pièce, di una lettura, di una performance che per un’ora o poco più si manifesta nella totale irripetibilità.

La tradizione non trasmetterebbe il passato nella sua integralità, ma attraverso di essa si determinerebbe una sorta di azione filtrante, il cui prodotto verrebbe a costituire così la tradizione. Questo è quello che importa, alla fine per noi spettatori e per gli artisti stessi: provare a rimandare quello stesso messaggio in altre diverse modalità che non siano per forza figlie di una comprensione che si isola dal processo di distrazione.

Durante le giornate di festival del 21 e 22 Luglio per quanto è stato possibile vedere e scriverne, sebbene in una modalità frenetica tra uno spettacolo e un altro, laddove non c’era molta possibilità di distrarsi anche dalla “distrazione stessa, quella della performance, ritornare in sé e confrontarsi, almeno un’ora prima di ciascuna visione.

Le Baccanti Le Viedelfool Simone Perinelli

Si è respirato un percettibile leitmotiv, ossia la riproposizione del mito: Le Baccanti, de le Viedelfool (l’intervista a Simone Perinelli)

e Eracle l’invisibile de Il teatro dei Borgia tratto dalla tragedia di Euripide, drammaturgia di Fabrizio Sinisi con Christian Di Domenico, progetto e regia di Giampiero Alighiero Borgia. Liberamente ispirato al mito greco di Eracle (il forte per eccellenza), lo spettacolo narra di un uomo come tanti, un buon padre di famiglia, un marito felice, la cui vita inciampa in un evento imprevisto e si sgretola. Racconta, attraverso una vicenda piccola e intima, il confuso sentimento di paura e rabbia che pervade la nostra società, che in tanti casi deflagra in violenza. Come per Medea per strada, anche questo spettacolo nasce da una ricerca sul campo con la Caritas e in particolare con I Gatti Spiazzati, un’associazione di promozione sociale, che organizza a Milano passeggiate condotte da esodati, disoccupati, senza tetto e in generale persone in situazioni di disagio, che mostrano la città attraverso “i loro occhi”. Attraverso la riscrittura del Mito di Eracle il Teatro dei Borgia ha voluto mettere in luce problematiche che rispondono al 89% della popolazione, oramai, e di cui non tutti tra questa cifra stimata ne vogliono parlare, palesarsi e manifestare la tragedia che “potrebbe toccare chiunque”.

Il tema dei genitori separati e le loro vicissitudini economiche, sociali, psicologiche. Il tutto spiegato con la dolcezza di un “padre” il quale sembra raccontare a un pubblico/figlio una favola prima di andare a letto ma che il sonno non provocherà, anzi. Dell’attore si accoglie l’umanità, la capacità di interagire, l’essere sempre presente prima come uomo poi come attore tanto da arrivare nell’ immediato, con l’odore di pane che cuoce nel forno tagliato a fettine contate da inserire in diverse buste insieme a una bottiglietta d’acqua, una scatoletta di tonno, una mela. Nel mentre parla (viene il dubbio se poi sia improvvisato sulla base di un canovaccio per quanto sia naturale), guardandoci e così la maggior parte dei sensi viene coinvolta in un semicerchio che potrebbe ricordare la disposizione di una anfiteatro greco. Questa è la bellezza del Teatro dei Borgia: la vita, il cuore che si percepisce immediatamente a ciascuno spettacolo, “trasferire” gli altri in un’altra realtà, onirica ma pur sempre vera con una consapevolezza e alta conoscenza, dunque, del MITO.

Riusciti e arrivati perché reali e artefatti, finti e veri e per questo eclettici e ammalianti i Quotidiana.com presentano il loro ultimo lavoro Tabù. Ho fatto colazione con il latte alle ginocchia: una ricerca del linguaggio nei divieti morali che hanno il compito di proteggere l’essere umano ma in realtà lo colpiscono con dolore e male. Una scenografia scevra, due corpi, al centro un busto (forse quello di Freud?) movimenti plastici e battute passate come a una partita stanca a tennis. Come stanca forse appare la società di mangiare parole che non riguardano la difesa di alcuno se non l’imbriglio di tutti. “È tabù parlare della masturbazione…è tabù parlare della depressione, del fallimento”.

Quotidiana.com

In tutto questo percorso Roberto Latini, padrino di questa edizione, ha riempito i pochi vuoti con le letture dei Nnord_Paralipomena e parerga, un nuovo progetto drammaturgico che prevede testi originali capaci di indagare il concetto di normalità, scritti dai suoi allievi del corso di perfezionamento in dramaturg internazionale promosso da Emilia Romagna Teatro. Sono testi che chiunque avrebbe voluto scrivere perché scivolano nella specularità di essere Normale, e sono parole ripetute con comprensione, consapevolezza, rispetto, amore per chiunque le abbia scritte.

La sera del 21 Luglio, presso il Chiostro di Santa Chiara è andato in scena Amleto+Die Fortinbramachine, una scrittura scenica ispirata a Die Hamletmaschine di Heiner Müller che negli anni ’70 compose un testo liberamente ispirato all’Amleto di Shakespeare.

Hamletemachine fu una riscrittura in senso tecnico una vera e propria testimonianza e considerazione dell’innovazione in tradizione. Avere a che fare con questa consapevolezza è doveroso. Hamletmaschine è forse il testo più conosciuto di Heiner Müller, una delle figure più originali del teatro del secondo dopoguerra e sputa fuori dal petto una cantata dolorosa, ad evocare la storia recente e lo strazio della memoria. Fu Bob Wilson il primo a portarlo in scena nel 1977. Il testo è costituito da una serie di citazioni fedeli o rimaneggiate non sempre immediatamente individuabili e tali da rendere estremamente complicata l’interpretazione. “Die Hamletmaschine” è la distruzione dell’intellettuale: Amleto è un intellettuale che prova soltanto disgusto e nausea nei confronti di un mondo che non riesce a cambiare. L’originale shakespeariano viene stravolto: Amleto diventa un simbolo della perdita di speranza; secondo l’autore il dramma è al tempo stesso la rappresentazione del fallimento necessario e l’autocritica dell’intellettuale contemporaneo.

Hamletmachine Roberto Latini

Per questo spettacolo Roberto Latini ha effettuato un ulteriore riscrittura con Barbara Weigel, facendo emergere anche il personaggio di Fortebraccio. Cinque quadri che richiamano gli atti della tragedia ma ponendo l’accento su riflessioni che il performer compie sul suo essere attore, sull’essere “o non essere” personaggio, sui caratteri che ciascun personaggio evoca, come, per esempio, la pazzia o fragilità di Ofelia nonché il suo indiscusso amore per Amleto e alla quale dedica il suo monologo finale, un finale, appunto, di amore straziante. Latini colpisce immediatamente. Lo spettatore dimentica di assistere a uno spettacolo teatrale perché è immerso nell’inquietudine mista a dolcezza che viene regalata. Si entra come in apnea e non si ha il coraggio di emergere perché immersi quasi in un mondo artefatto tanto da apparire paradossalmente più reale del reale. Tutto è rappresentato dentro a un grande cerchio di neon che cala dall’alto della scena, cambia colore in base al significante che l’azione del performer vuole comunicare (recinzione o riflessione interiore).

Latini non è soltanto un grande performer consapevole della propria capacità. È un uomo libero di muoversi su un palcoscenico che vede la complicità dei suoi compagni di avventura della Compagnia Fortebraccio: Max Mugnai, luci e tecnica e Gianluca Misiti, musica e suoni. Si percepisce la complicità tra questi tre in un unico corpo ed espressione. Come se il musicista avesse percepito da sempre, fin dal primo inizio di lavoro quale musica per quale emozione. E Misiti, come il protagonista, colpisce sempre con la delicatezza di sinfonie di fragilità, bella e necessaria da mettere in scena.

Voluta da Roberto Latini anche Carta Carbone, uninstallazione attiva sonora per uno spettatore alla volta e che ha a che fare con il meccanismo più evidente della sua collaborazione con Gianluca Misiti (dal ’94 a oggi). È un invito interattivo allo spettatore a misurarsi con la consapevolezza della parola e il suo suono in totale intimità e solitudine, nella comprensione più totale di un monologo che è ancora (e forse sempre rimarrà attuale, come un nodo mai sciolto): quello dell’essere o non essere atto III, scena I, Amleto.

Cosa saremo non è dato di sapere, adesso. Cosa siamo stati è l’unica cosa certa. Nel mezzo c’è una trasmissione che risulta necessaria.

1 Valentina Venturini, Dal Cunto all’opera dei pupi. Il teatro di Cuticchio. p.57

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