Chi fa teatro, Interviste, Teatro — 12/09/2015 at 19:32

Oscar De Summa. Il teatro è rivoluzione

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REDAZIONE  – Autore, interprete e regista, Oscar De Summa si racconta a trecentosessanta gradi. Dalla giovinezza in Puglia nei primi anni 80 – ritratti in Stasera sono in vena, il suo ultimo spettacolo – quando: “Si respirava la coscienza che il mondo può e deve essere cambiato”. Fino alla maturità, artistica e umana, contraddistinta da un lungo e fruttuoso rapporto con le opere di Shakespeare, che non è: “Quella cosa ingessata, seriosa, che parla di chissà che”, perché “a teatro si parla di vita”. De Summa non teme di prendere anche posizione sull’ultima Riforma del Fus: “Credo sia totalmente deleteria e l’ennesimo segnale della volontà di uccidere il teatro”. E riafferma il suo credo in un teatro come motore di trasformazione, a livello personale e sociale, quando afferma: “Sono veramente convinto che il teatro è la grande arte della rivoluzione, in questo momento. Perché presuppone la presenza contemporanea di attore e spettatore, e questo incontro è già cambiamento”.

Oscar De Summa
Oscar De Summa

Dopo Diario di Provincia e Hic Sunt Leones, scrive Stasera sono in vena. Perché questa esigenza di raccontare il Meridione?

«Per una serie di motivi. Innanzi tutto perché è il mondo che conosco meglio, quello dove le forze che agiscono sono più forti, quasi primordiali, tanto da mantenere la loro freschezza anche quando incontrano un corpo e una personalità. Scrivo basandomi su ciò che conosco meglio, anche a mia insaputa, perché penso che spesso si agisca in base a un imprinting ricevuto, che non si è coscienti di possedere. In altre parole, io ambisco a una ricerca di consapevolezza della struttura psicologica, fisica ed emotiva – che è necessaria per stare sulla scena. E questa mi costringe, a sua volta, a cercare gli elementi basilari e, di conseguenza, a rivolgermi all’infanzia e all’adolescenza».

Oscar De Summa "Sono in vena" foto di Manuela Giusti
Oscar De Summa “Sono in vena” foto di Manuela Giusti

In Stasera sono in vena lei racconta i primi anni 80, quando l’eroina invase l’Italia da nord a sud. Si è spiegato perché alcuni poteri forti decisero di annientare un’intera generazione con la droga?

«Tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei ’70, credo stesse davvero cambiando qualcosa nell’immaginario comune. C’era una grande forza propulsiva da parte della gioventù, che non accettava più una serie di valori. Senza entrare nello specifico, direi che si respirava la coscienza che il mondo può e deve essere cambiato. Questa libertà di pensiero e azione penso abbia spaventato il potere, che ha reagito decidendo di lasciar correre certe istanze autodistruttive insite nella gioventù che, di base, vuole provare un po’ tutto e, tra le esperienze, può scegliere di avvicinarsi anche alle droghe. A questo punto, il potere non ha – banalmente o in modo complottistico – favorito o immesso sul mercato gli stupefacenti. Ma ha lasciato che la gioventù di quegli anni si autodistruggesse, inserendo nell’immaginario collettivo elementi o principi morali fino ad allora estranei, quali l’edonismo e il rifiuto della lotta politica. Ma facciamo un passo indietro: l’eroina è un tipo di droga che ti fa star bene; nel senso che ti fa sentire centrato, nel posto giusto al momento giusto. E questa sensazione ha un’immediata valenza politica perché se si sta bene, cessa la volontà di cambiamento. Per me, la scelta di alcuni poteri forti è stata proprio quella di non agire. Una scelta che, alla fine, si è rivelata propriamente politica».

Amleto a pranzo e a cena, prima versione con Roberto rustioni, Angelo Romagnoli, Armando Iovino
Amleto a pranzo e a cena, prima versione con Roberto Rustioni, Angelo Romagnoli, Armando Iovino, Oscar De Summa

Lei scrive che il teatro al meridionale è la narrazione che “si è scrollata di dosso la linearità del racconto”, scegliendo di procedere “per stati d’animo”. Ma il monologo, più che un fine, non è un mezzo per fare teatro quando i fondi scarseggiano?

«Ha colto in pieno la questione teatrale contemporanea. La mia idea di teatro si basa sulla partecipazione, mira a Compagnie con molti elementi. Ma la scarsezza di mezzi e la mancanza del senso di categoria che affligge noi attori, ci costringe a lavorare in piccolo. Mi spiego meglio: spesso i cambiamenti che avvengono nel mondo teatrale non sono percepiti come un attacco al sistema e alla categoria lavorativa alla quale appartengo. E ogni attore si comporta di conseguenza, all’italiana, perché pensa: “Tanto conosco quello, io me la cavo comunque”. L’unica possibilità, in questo stato di cose, è il monologo e, in special modo, quelli che si avvalgono – anche a livello scenografico e di disegno luci – su dotazioni minime, disponibili in qualsiasi teatro. In questo momento storico l’attore è costretto a essere imprenditore di se stesso, abbattendo i costi, trovando le piazze, ritagliandosi una fetta di mercato. E la nuova legge sul Fus non aiuta».

Riccardo III (foto di Aurelio Spataro)
Riccardo III (foto di Aurelio Spataro)

Tra i suoi eterni ritorni, molti testi shakespeariani – da Riccardo III allo studio su Romeo e Giulietta (presentato al Festival  Inequilibrio 2014). Quale l’attualità e perché l’esigenza artistica di riproporre il Bardo?

«Shakespeare ha molte valenze. Se si considera la sua consapevolezza di essere umano all’interno del mondo, è una figura illuminata al pari di Leonardo. Un genio della letteratura capace di scrivere verità come: “Tutto il mondo è un palcoscenico” (Come vi piace, n.d.g.). Entrando ancora di più nello specifico, noi attori sappiamo che non siamo gli io che interpretiamo, ma questi io sono dei ruoli. Shakespeare ci facilita nel nostro lavoro perché, nella sua bravura, ci fornisce tutti gli elementi per una buona interpretazione grazie a questi io-ruolo. E perciò, i suoi personaggi sono sempre molto densi anche quando secondari. Ma non basta. Questo autore non ha un punto di vista proprio che impone allo spettatore, ma è in grado di adottare tutti i punti di vista, in modo tale che ogni personaggio abbia le proprie ragioni. E se non bastasse, all’interno delle sue opere sviluppa i grandi temi dell’umanità. Ma non si tratta di letteratura, quanto di scrittura esperienziale. In parole semplici: ho cominciato a mettere in scena Shakespeare a vent’anni – e adesso ne ho 43. Al di là delle questioni intellettuali, all’inizio mi capitava spesso di recitare delle battute che non capivo perché mi mancava l’esperienza diretta. Il Bardo, al contrario, dimostra un’autentica consapevolezza. Sembra che abbia sperimentato ogni sensazione per poi descriverla nelle sue opere in modo tale da rendere facile all’attore interpretarla, scoprendo in sé quei richiami interni dai quali si attinge dopo aver vissuto una certa esperienza».

L’anno scorso aveva presentato il primo studio di Romeo e Giulietta che, grazie all’ottima interpretazione della protagonista, risolveva il dilemma tra età dei personaggi e professionalità degli attori. A che punto è il progetto?

«È naufragato per mancanza di risorse, con mia grande amarezza. L’idea era presentare a Inequilibrio il primo studio, così da raccogliere i fondi necessari per finire il lavoro. Va notato che non si può sempre preparare una messinscena in venti giorni. Si possono rispettare questi tempi nel momento in cui si lavori con attori esperti che non stanno cercando niente, e che mettono a disposizione quanto già sanno. In questo caso i ragazzi erano giustamente giovani, con acerbità inevitabili. Il progetto prevedeva, quindi, tempi più lunghi. Nel primo mese avremmo destrutturato quanto appreso nelle scuole di recitazione, che spesso è inutile; nel secondo, avremmo migliorato l’affiatamento del gruppo; e alla fine, si sarebbe montato lo spettacolo. Tutto questo ha un costo, benché basso, e non siamo riusciti a coprirlo. D’altro canto, il teatro italiano soffre di distorsioni incomprensibili. A parte pochissimi colleghi, che firmano più spettacoli l’anno, agli altri è preclusa questa possibilità perché non sembra esserci mercato. E questo è capitato anche a me con Romeo e Giulietta. Dato che stavo debuttando con Stasera sono in vena, mi è stato detto che non c’era la possibilità che girassi anche con una seconda regia».

UnOtelloaltro foto di Alessandro Fantechi
UnOtelloaltro             ( foto di Alessandro Fantechi)

Con la riforma del Fus è cambiato qualcosa per le produzioni e le Compagnie indipendenti?

«Credo che la riforma sia totalmente deleteria e l’ennesimo segnale della volontà di uccidere il teatro. Va a colpire tutta quella fascia di attori, autori e Compagnie che girano per l’Italia, cercando di imporre una forma al teatro italiano – la stanzialità – che non gli è propria e non ha mai avuto. Sembra si voglia costruire un sistema all’inglese, o alla francese, con spettatori fedeli che vanno a teatro tutte le sere e Compagnie stabili: un’organizzazione e un riscontro che in Italia non esistono. La realtà è che, oggi, si segue quanto va di moda e, per il resto del tempo, i teatri restano vuoti o quasi. Questa riforma, quindi, non fotografa la situazione reale e rischia di ammazzare le eccellenze del teatro italiano. Penso, ad esempio, al lavoro di Saverio La Ruina o di altri colleghi del suo calibro, che hanno qualcosa da dire e che hanno sempre avuto un grande riscontro di critica e pubblico – se il problema è lo sbigliettamento. Al contrario di come Luca Ricci fa da anni, a Sansepolcro, la riforma non suggerisce alcun modo per portare lo spettatore a teatro e fargli capire che il teatro non è – come non lo è Shakespeare – quella cosa ingessata o seriosa, che parla di chissà che. A teatro si parla di vita. Con Stasera sono in vena ho voluto raccontare qualcosa che mi toccava da vicino, come a dire: “Salto la palude dei pregiudizi costruiti anche ad hoc per ammazzare il teatro, e racconto qualcosa di mio”. Parto da me stesso per narrare ciò che mi è successo ma può essere accaduto anche a te, spettatore, a tuo figlio, a tuo fratello. Il teatro non tratta di fatti astrusi e lontani ma di noi stessi. Siamo noi, teatranti e spettatori, che entriamo in una relazione fisica ed energetica, che crea a sua volta una nuova consapevolezza comune».

Chiusi gli occhi (foto di Angela Maggio)
Chiusi gli occhi (foto di Angela Maggio)

Se potesse farsi ascoltare da chi decide, cosa suggerirebbe per migliorare la situazione teatrale italiana?

«Dal punto di vista tecnico non mi sento così ferrato da dare suggerimenti, quello che so è che non ho mai ricevuto alcun finanziamento pubblico. Negli ultimi quattro anni, La Corte Ospitale mi ha appoggiato, ma teniamo conto che la stessa riceveva ventimila euro annui, a fronte di una struttura con quattro sale prove e un teatro. Come ho già detto, è indicativo delle storture della situazione attuale che pochi nomi possano firmare più regie l’anno, mentre altri, altrettanto bravi, fatichino a produrre anche un solo spettacolo. Penso a Massimiliano Civica o a un maestro riconosciuto e punto di riferimento per un’intera generazione, come Danio Manfredini. Ma non voglio nemmeno entrare nel discorso qualitativo perché ognuno di noi dovrebbe essere semplicemente messo nella condizione di lavorare con tranquillità. Si tiene conto del numero senza considerare che, spesso, questo è in ragione del regista di moda o dell’attore conosciuto dal grande pubblico. Ma quello stesso nome, magari tra cinque anni, non riscontrerà più lo stesso successo e allora si potrà mandarlo a casa. Questa idea tutta italiana che si abbia bisogno di una figura geniale, che in un tempo limitato creerà dei capolavori, è vecchia. Dovremmo tutti abbassare l’idea che abbiamo di noi stessi e considerarci come semplici lavoratori dello spettacolo. Nel momento in cui ci considereremo dei lavoratori, ecco che si può anche accettare a livello collettivo che alcuni spettacoli vengano bene e altri meno. Questo ci porrà tutti in una condizione in cui nessuno potrà più pretendere cachet da 5.000 euro al giorno, mentre altri ne guadagnano 50. Saremo finalmente persone con una coscienza di categoria, dove al di sotto di certe cifre si ha lo sfruttamento e al di sopra il ladrocinio. Per quanto mi riguarda, di fuoriclasse c’era Carmelo Bene. Ma ora come ora, non mi sembra che i geni abbondino. Del resto, quando uno è considerato un genio, ecco che con lui non si può più dialogare, non lo si può criticare, e tutti gli altri non possono avere gli strumenti finanziari per il loro lavoro perché i fondi devono andare a questo genio che dovrebbe fare chissà che. Io combatto i geni»

Oscar De Summa
Oscar De Summa Diario di provincia

Lei, spesso, ricopre più ruoli – autore, regista e interprete. Altre volte è solo attore. Non le chiedo in quale ruolo si senta meglio. Piuttosto: non è difficile per chi spesso fa tutto da sé accettare la direzione di un regista?

«Dipende dal regista con il quale si lavora e dalla relazione che s’instaura. Sicuramente quando si condividono alcuni aspetti, ci si affida facilmente e, per me, abdicare al ruolo di regista è un’opportunità per sentirmi libero di studiare la parte, approfondire il personaggio, dato che la responsabilità di decidere cosa funziona o meno è demandata all’altro. Se potessi fare solo l’attore, lo preferirei. Il resto è venuto per necessità. E, sebbene mi piaccia dirigere e scrivere, mi sento soprattutto attore».

Il suo sogno nel cassetto?
«Il progetto al quale sto lavorando, che si chiamerà la Quinta Stagione. Una Compagnia di almeno otto persone, accomunate da un desiderio e da una consapevolezza tali, del proprio mestiere e del proprio ruolo all’interno della società, da costruire delle sfide serie. Sfide d’incontro con lo spettatore, anche in spazi diversi. Un progetto che non sia solamente la messinscena di uno spettacolo, ma che porti all’instaurazione di relazioni all’interno della Compagnia e tra la Compagnia e l’esterno, così da creare delle isole dove – mi si scusi l’emotività – essere “fragili”. Vorrei trovare luoghi fisici, d’incontro, economici, che ci permettano, volta per volta, di scegliere su cosa lavorare. Sono veramente convinto che il teatro è la grande arte della rivoluzione, in questo momento. Perché presuppone la presenza contemporanea di attore e spettatore, e questo incontro è già cambiamento, in quanto scambio di idee e di energie. Leggo nella società il desiderio di tornare alle questioni umane, relazionali. Quest’estate, a Inequilibrio, i ragazzi della No Tav, che hanno ricevuto il Premio Lo Straniero (della rivista omonima diretta da Goffredo Fofi, n.d.r), hanno detto una cosa meravigliosa: “Ringraziamo la Tav perché per 300 giorni l’anno vediamo concerti, spettacoli, usciamo di casa, ci incontriamo, ci aiutiamo a vicenda». Lì si è creata una comunità. Credo che questo sia il passaggio che dobbiamo fare tutti: uscire di casa per ricreare la comunità. E il teatro, in queste contingenze, è sempre il motore dell’azione».

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