RUMOR(S)CENA – «In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico»: frase che racchiudeva l’idea centrale de La migliore offerta di Tornatore. Un’altra ancora può bussare alla mente, quella ascoltata nel misterioso Il gioco (’98) di Claudia Florio in cui Corinna (Susan Lynch), fotografa dilettante, davanti a una tavola imbandita di arrosti e dolci in das, finemente modellati e dipinti, spiega alla coinquilina: «Il guaio del cibo vero è che non sembra affatto vero!». Perché questi riferimenti (insieme a Sallustio che dà il titolo all’articolo)? In qualche modo ritornano e si intrecciano nel recente Il materiale emotivo, co-produzione italo-francese, distribuita in sala da “01”.
Sceneggiata da Margaret Mazzantini che per l’occasione, a fianco del consorte, si immerge con rispetto – arricchendola, comunque, di astute invenzioni – in una storia postuma, più volte figurata e riscritta, del maestro Ettore Scola (re-intitolata “Un drago a forma di nuvola” e pubblicata in forma di racconto a fumetti dai tipi di Nicola Pesce), la settima e, a nostro avviso, miglior prova di Sergio Castellitto come regista giunge agli occhi… sincera. Difficile trovare altri aggettivi. Non riuscita ma generosa, persino disarmante nella sua vulnerabilità, affatto da deridere per la gracilità delle gambe sulle quali fa camminare idee ambiziose (benché non nuove); idee che nell’attuale cinema italiano forse non possono più trovar spazio. Non con un simile linguaggio, almeno. Scena dopo scena, cresce infatti la sensazione di una vicenda “atterrata” da un altro mondo, scordata chissà da quanto in un vecchio cassetto. Cassetti e mondi “lontani”, come lontana appare ormai la generazione di Scola, la considerazione dell’Uomo che ne guidava le opere, lo sguardo che di Lui catturava (e custodiva) affetti, ossessioni, piccolezze: un Uomo molto amato dunque, nel quale il cineasta romano ripose una sorta di fede e perciò, quando Egli tradiva sé stesso, Scola ne parlava duramente, con l’inconfondibile ferocia di un amante deluso. Ma suo amante restava sempre.
Tra enfasi, indugi e repentine ellissi, l’omaggio cinematografico di Castellitto si impegna quindi a rievocare quello spirito, trasformandosi di dettaglio in dettaglio – ma di ciò, come emerge da alcune interviste, il nostro si è reso conto solo dopo – in una segreta, forse “saltellante” ma meno superficiale di quanto si pensi, passeggiata nell’intera opera di Ettore Scola, nella predilezione per uno spazio “raccolto”, nell’atmosfera scenica del Teatro fatta vivere, ad esempio, ne La più bella serata della mia vita (‘72), Il mondo nuovo (‘82), Ballando ballando (‘83) oppure nel fanciullesco e ancora oggi trascurato Il viaggio di Capitan Fracassa (‘90).
Non intendiamo rivelare troppi dettagli de Il materiale emotivo la cui trama vede al centro tre “gocce d’acqua” correre sullo smerigliato, variopinto vetro che porta il nome di Parigi; tre gocce d’acqua, sì, ma più di ogni altra cosa tre prigionieri: Vincenzo (lo stesso Castellitto), libraio antiquario napoletano esule in Francia, è prigioniero, anzi ostaggio “consenziente” delle promesse di eternità, di sottrazione al Tempo, che i capolavori della letteratura mondiale (Hugo, Dostoevskij) gli fanno di lettura in lettura; ostaggio di un corpo irrecuperabile è poi la figlia Albertine (Matilda De Angelis), accudita e inconsciamente odiata da suo padre che scorge in lei l’ostilità e la smania di perfezione proprie della madre che abbandonò entrambi; Yolande (un’euforica Bérénice Bejo, ben doppiata da Domitilla D’Amico) è invece vincolata dal mestiere d’attrice, tutta presa a impadronirsi dei sentimenti di chi le sta attorno, di ogni espressione o irripetibile attimo che possa arricchire la nuova “maschera” che indosserà sul palco, condannata però a non essere creduta quando “apre” davvero il suo cuore. Se i tre personaggi riusciranno o meno a fuggire dalle rispettive “gabbie”, lo scoprirete al prezzo di un biglietto d’ingresso…
Bisogna scegliere. Il materiale emotivo può irritare o sedurre per la stessa ragione: è assai difficile, quando non impossibile, identificarsi con quello che passa sullo schermo, emozione, scelta o comportamento che sia. Nel primo caso, e spiace dirlo, pesa sul disegno dei caratteri l’universo romanzesco della Mazzantini dove velata tirannia, reciproca assuefazione fisica e mentale, scatti di gratuita brutalità parrebbero l’unico fondamento delle relazioni umane. Per il resto, il messaggio sussurrato (posto che ci fosse) è che folle o ingiusta, malsicura o oltraggiosa, comunque irresistibile, questa vita è l’unica di cui si può avere contezza, la sola che avremo e che, in fin dei conti, ci spetta. Guai a colui (l’artista?) che ne cerca un’altra “imperitura” perché tutto ciò che protende all’Eterno, all’Ideale finisce immancabilmente per mortificare l’Uomo.
Ad esempio, Vincenzo (Pierre, nel soggetto originale di Scola), certo memore di Proust (non a caso la figlia si chiama Albertine e, come la fanciulla della Recherce, lei pure è una “captive”), sotto le pagine delle prime edizioni che restaura, rilega, dispone amorevolmente sugli scaffali e consiglia ai clienti è convinto di aver scoperto “[…] l’esistenza di una vita che avviene senza che ci si avveda e in un tempo diverso dall’abituale perché non limitato al presente e al passato ma esteso tra i due quale un ponte che permette la comunicazione. Una vita diversa, nuova, fatta di valori extratemporali e vissuta in un tempo incorruttibile che ha conservato il passato nella sua integrità quasi fosse presente e che è il tempo dello spirito” (cit. A. Stanca, ‘97). Malgrado ciò, questa tensione, questa piccola occasione di “partecipazione” all’eternità («L’attualità ci folgora, non ci rafforza mai. L’essere umano ha bisogno di fermarsi, di esistere» sentiamo nel film) che la libreria può offrire – concedendo inoltre di vedere il mondo per quello che è nel profondo, aldilà di luci o assordanti rumori – nel copione non diventa mai fonte di pieno, autentico appagamento.
Al contrario, sulla falsariga di Timoteo nel fangoso Non ti muovere, il personaggio di Vincenzo risulta, nella percezione dello spettatore, l’ennesimo borghese piccino e “fermo”: egli non sa scegliere né per sé né per gli altri, lascia che il Fato s’imponga con il suo carico di disgrazie e, senza rendersene conto, ne diviene compiaciuto strumento. Non c’è nulla di “ascetico” nel suo cartaceo culto del Passato o nella diffidenza verso il Presente, soltanto la “ripicca” di un bambino troppo cresciuto, che non trova il coraggio di mettere piede nel mondo esterno. E i libri rimangono nelle sue mani ciò che, in fondo, sono oggigiorno per tanti, troppi: non il sale che dà sapore ai sogni bensì puri e semplici oggetti che sopravvivono beffardamente ai loro creatori e proprietari che quasi inveiscono loro contro (si racconta che prima di morire Flaubert, riferendosi a Emma Bovary, avesse sospirato: «Io non farò più ritorno, invece quella sgualdrina rimarrà e vivrà a lungo»); “bare” che soffocano la vita – come dice gongolante l’infermiera di Albertine (Marie-Philomène Nga) – della quale solo le donne, fieramente inaccessibili agli uomini, capiscono il vero significato. Non ci convince.
Tuttavia, come accennammo su, la difficoltà a identificarsi con ciò che Il materiale emotivo narra può essere pure motivo di antiquato, ritrovato piacere. Tutto nel film procede nel segno dell’illusione scenica: tutto è legno, tessuto e cartapesta, orgogliosamente di legno, tessuto e cartapesta, a partire dal prologo in cui si apre un rosso sipario e il pubblico in sala viene affettuosamente introdotto in un quartiere della Ville Lumière, ricostruito dallo scenografo Massimiliano Sturiale (Troppa grazia). Falso eppure inspiegabilmente vero. Nel legno, nel tessuto e nella cartapesta c’è… la vera vita! La fugace apparizione del manifesto de Le notti bianche(’57) al piano superiore della libreria di Vincenzo fornisce, a tal proposito, una chiave di lettura decisiva: come la pellicola di Luchino Visconti, collocando i tre protagonisti in un’irreale, nebulosa Livorno ricreata in studio, recise definitivamente il cordone ombelicale che legava il cinema italiano al Neorealismo, aprendogli le porte del Sogno e, insieme ad esso, una più sentita esplorazione dell’animo umano, così Castellitto fa con la “sua” Parigi, stilando senza volerlo un “opuscolo filmico” di protesta verso l’assillante (e spesso ipocrita) realismo di molta produzione odierna nostrana.
Ebbene, per coloro che sono disposti a passare la notte fuori, in quel cinema baloccoso e “distante” di cui Il materiale emotivo è l’aggraziato spettro, non mancheranno le lacrime di commozione, l’orgoglio nel sentire di possedere ancora un’immaginazione, l’occasione di puntare finalmente l’indice contro il “ragno”, chiunque sia, che chiama “normalità” ciò che per molti di noi, fragili mosche, è orrore puro. Tutti gli altri continuino ad applaudire quest’orrore, che sa bene porsi per ciò che non è.