RUMOR(S)CENA – MILANO – Trattare il tema della Shoah, in un momento in cui, anche in paesi non lontani dal nostro, tornano a perpetrarsi i crimini di massa che ci eravamo illusi riguardassero stagioni ormai da archiviare, è un dovere imprescindibile. E non basta suscitare reazioni emotive, che possono spegnersi nel giro di pochi giorni. È necessario che l’apprendimento della Shoah produca una radicale modifica del comportamento, che si rifletta sul modo di essere e di porsi di fronte all’altro, sia egli percepito simile, sia differente da noi.
Per raggiungere questo scopo non servono le descrizioni dell’orrore delle camera a gas, le immagini di cumuli di cadaveri, le cronaca del comportamento sadico delle SS; risulta più efficace un approccio più meditato e mediato, quale può fornirci lo sguardo di un grande scrittore, o anche una saggistica che rifugga dal sensazionale.
Della lezione di Primo Levi, ciò che rimane più impresso sono le pudiche, icastiche immagini di poesia che introducono il suo libro (“… freddo il grembo / Come una rana d’inverno”); o il racconto di come lui cerchi di spiegare a un giovane compagno di deportazione, che non conosce la lingua italiana, il XXVI canto dell’Inferno.
Con l’ormai classico La banalità del male, Hannah Harendt smaschera la desolante mediocrità di un supposto campione del male, Adolf Eichmann, mostrandoci che coloro che hanno perpetrato quei massacri non sono mostri riconoscibili dai tratti fisiognomici ma, spesso, omuncoli anodini, insignificanti.
Forse meno noto, ma non meno importante, è In quelle tenebre di Gitta Sereny, una giornalista britannica di ascendenze ebraiche e ungheresi. Il libro è costituito da una lunga intervista a Franz Paul Stangl, già comandante dei campi di sterminio di Sobibor e di Treblinka, raccolta dall’autrice durante una serie di incontri in una cella del carcere di Düsseldorf, dove Stangl stava scontando una condanna all’ergastolo, e dove sarebbe morto per un attacco di cuore, il giorno successivo all’ultimo appuntamento con la giornalista.
Partire da un testo così imponente (oltre 500 pagine), per riportarlo in forma drammaturgica, era un’impresa ardita, per non dire disperata. Ma Rosario Tedesco ne è venuto a capo, con misura e intelligenza. Qualche anno prima aveva già tratto una suggestiva riduzione teatrale del romanzo epistolare Destinatario sconosciuto di Katherine Kressmann Taylor: una spietata, geniale parabola sulla persecuzione nazista degli ebrei, scritta prima della cosiddetta “soluzione finale”. Non stupisce quindi che la sua sensibilità al tema sia stata stimolata dal casuale approccio al saggio di Gitta Sereny.
La messa in scena proposta alla Casa della Memoria di Milano esaltava le scelte minimaliste della drammaturgia e della regia, non dettate dalla situazione logistica, cioè da un luogo che non era nato come spazio teatrale tradizionale, bensì da una precisa scelta stilistica e artistica.
“Questa è una tragedia, come quelle che si rappresentavano nella Grecia antica, prive di qualsiasi orpello scenografico o scenotecnico.” ha annunciato al pubblico Rosario Tedesco. “Quindi non spegneremo le luci, e non lo faremo neppure nelle successive repliche in teatro. Nicola Bortolotti sarà Stangl, e io mi ritaglio il ruolo del messaggero della tragedia, che è quello di Gitta Sereny; mutando la mia postazione, darò voce anche a Theresa Eidenböck, la moglie”.
In questa modalità espressiva ridotta all’essenziale, quasi a una lettura interpretativa senza alcuna concessione a una facile emotività, i contenuti del libro trovano una loro sorprendente efficacia.
In particolare emerge una sorta di empatia che l’autrice, pur ferma nel suo giudizio, e nel disgusto per le atrocità del nazismo, riesce a stabilire con l’uomo Stangl, affettuoso marito e padre di tre bambine. La sua iniziale, reiterata dichiarazione di innocenza, quasi un mantra ripetuto da tutti i nazisti sottoposti a processo (“Ho la coscienza pulita: non ho mai fatto direttamente male a nessuno; ho semplicemente adempiuto ai miei compiti”), in uno degli ultimi incontri si risolverà nella consapevolezza e nell’ammissione della sua colpa.
Il titolo del libro (sostanzialmente fedele all’originale: Into the Darkness) nello spettacolo è integrato con un sottotitolo che ne precisa il senso: La verità è un intreccio di voci. In effetti, la ricerca di come sia stato possibile che quelle cose avvenissero viene resa da una molteplicità di voci. Fra le parole di Theresa colpisce una sua confidenza, quando rivela di essersi negata all’intimità col marito dopo aver avuto da lui conferma di cosa succedeva a Sobibor.
Gitta Sereny, nel suo reiterato sforzo di superare le iniziali resistenze di Stangl, gli pone una serie di domande personali: “Sarebbe esatto dire che si abituò alle liquidazioni?”; “C’erano tanti bambini: non le fecero mai pensare alle sue bambine?”.
Altre aprono a sconvolgenti interrogativi esistenziali: “Che cosa è Dio?”; “C’era Dio a Treblinka?».
Per porle, Rosario Tedesco trova una felice soluzione registica: nel corso dell’azione scenica lui e Nicola Bortolotti consegnano ad alcuni spettatori delle buste dai colori diversi, avvertendoli che saranno invitati ad aprirle e a leggerne il contenuto.
E ciò avviene, con voci spesso rotte da una commozione non contenibile.
Visto alla Casa della Memoria di Milano il 6 gennaio 2022