RUMOR(S)CENA – FIRENZE RIFREDI – Basta dare un’occhiata ai vari dispositivi e piattaforme, per rendersi conto che stiamo camminando con lo sguardo rivolto all’indietro: biopic, documentari, monografie suscitano oggi grande interesse, soprattutto se ruotano intorno alle figure di coloro che hanno attuato una rottura con ciò che li precedeva. A pensarci è paradossale, ma questo continuo riferirsi al passato sarebbe comunque legittimo, se si traducesse in uno sforzo per comprendere e non in mera celebrazione o, ancor peggio (e come quasi sempre avviene) in una disperata ricerca di conferma dell’eterno “o tempora, o mores”. Sono gli altri che devono imparare dai cosiddetti maestri e non noi, che nelle loro parole più che insegnamenti cerchiamo profezie e soprattutto moniti. Perché in uno spettacolo che “ruota attorno alla figura di”, niente è più confortevole di un bel monito cantato come si deve.
Eppure in Tavola tavola, Chiodo chiodo di Lino Musella, in scena al Teatro di Rifredi, non c’è proprio nulla di confortevole. Strano, perché c’è la grande figura del passato, Eduardo de Filippo, così come quel “ruotare attorno” che il testo dello stesso Musella in collaborazione con Antonio Piccolo, costruisce tessendo lettere, citazioni e virgolettati all’interno di un discorso drammaturgico dinamico e omogeneo; tanto meno manca il monito, dato che tutto lo spettacolo potrebbe essere visto come una rincorsa verso lo slancio finale, la lettura della durissima lettera al ministro Tupini. E allora? Cos’è che lo rende diverso da qualsiasi altro spettacolo che scomoda un gigante, dichiarandosi necessario?
La risposta sta proprio in quest’ultima parola: di ciò che è “necessario” Tavola Tavola, Chiodo chiodo ha il coraggio di mostrarci le caratteristiche inconfondibili che, aihmé, sono le meno piacevoli. Dal suo atto unico non si esce sollevati, né tanto meno assolti. Perché se è vero che le commedie di Eduardo de Filippo hanno fatto ridere e commuovere le persone, senza pretendere da loro alcun interesse per le sofferenze che hanno generato quelle opere, è altrettanto vero che adesso sul palco non c’è Eduardo, ma il suo personaggio, interpretato da un attore che intende mettere in scena anche le sfumature più difficili, le spigolosità e persino la cattiveria di De Filippo: i rancori, i tagli netti e sbrigativi tra il privato e il professionale, la caparbietà che deraglia in ossessione, la coerenza che sfiora l’intolleranza. E anche tutto questo ha contribuito a restituirci quel grande maestro e le cose per cui gli siamo grati.
Lo spettacolo prodotto da Elledieffe e dal Teatro di Napoli, lo ritrae in uno scenario preciso, soltanto secondariamente metaforico o archetipico: lo spazio materiale del suo studio. Persino la presenza della scrivania, la vera scrivania dell’autore, concessa dal nipote Tommaso De Fìlippo (il cui apporto è stato centrale per il progetto, anche in fase di stesura e ricerca dei testi), è ben altro che un elemento feticistico: il fatto di vedercela davanti, sommersa da raccomandate e conteggi, piuttosto che da appunti vergati con febbrile estro creativo, ancora una volta da l’idea di fatica, difficoltà e di un peso che spezza le spalle su cui grava. Gli anni sono quelli della consacrazione, del riconoscimento e della fama, ma anche delle piaggerie, delle falsità, dei contrasti familiari e della sufficienza che le istituzioni sanno mascherare con il sussiego.
Sono gli anni del San Ferdinando, comprato a suon di ipoteche da De Filippo con l’intenzione di rifondare un luogo e un’idea di teatro che superasse il teatro dialettale, alla larga dai paludamenti di quello borghese, che Eduardo riteneva già un cadavere marionetta mosso da fili invisibili. Lino Musella fa raccontare al suo personaggio gli sforzi sovrumani e l’incertezza che questi possano produrre risultati, e anche qui è chiaro come il motore di tutto non possono più essere il trasporto e l’idealismo iniziale, ormai logorati, ma una spinta quasi per inerzia, con l’ossessione a fare da legittimo carburante. Noi sappiamo cosa Eduardo de Filippo è riuscito a fare e quanto è stato provvidenziale il suo impegno, ma davvero saremmo così bendisposti se qualcuno ci raccontasse la storia di un uomo capace di mettere da parte tutto, la propria famiglia, la sua stessa esistenza, dibattendosi furiosamente per perseguire qualcosa in cui crede? Davvero chiameremmo quell’uomo maestro, o piuttosto esaltato, fanatico?
Il senso di responsabilità soltanto nei sogni è degnamente ripagato, e compreso soltanto nelle frasi di circostanza. Gli apprezzamenti, le manifestazioni di stima popolano come spettri lo studio di quest’uomo che prova istintivo sospetto anche per quelli che riconosce come sinceri: Lino Musella mantiene la sfumatura del sospetto, della diffidenza anche quando Eduardo usa parole di fiducia e di speranza. Come la sua voce è diventata roca durante gli anni della gavetta, passati ad attendere la chiamata in scena dentro l’antro umido di uno sgabuzzino ricavato nella roccia, anche il suo spirito si è intorbidito di un’oscurità che in qualche maniera è la fonte della sua umanità; come se ciò che di buono riesce a fare, debba esistere proprio in barba al buio di cui era prigioniero prima di salire sul palco. Persino nei momenti in cui Musella scioglie il peso drammatico, facendo comparire Lucariello, resta un che di quell’oscurità, in un continuo-discontinuo davvero interessante che deve molto anche alle luci di Pietro Sperduti.
La gravità, il peso dei concetti torna materico nei movimenti di Musella all’interno dello spazio scenico, perlustrato e toccato con le mani di Eduardo, che conoscono gli attrezzi delle maestranze come gli strumenti e i meccanismi della scrittura: Musella lavora al “presepe”, ovvero il modello in legno del San Ferdinando che troneggia al centro della stanza, usa chiodi e martello, issa una riflettore. Forse sono questi attimi, gli unici in cui il personaggio Eduardo de Filippo trova qualcosa che assomiglia al sollievo. Una conferma alla sua idea di lavoro, di necessaria resistenza alla fatica, alla base di qualunque atto generativo.
Affianca il protagonista, la chitarra dal vivo di Marco Vidino, anch’essa impiegata per modulare i vari passaggi del racconto. Fingerstyle, walking blues, panorami sonori atmosferici: gli interventi di Vidino sono misurati e piacevoli; ma a livello concettuale, la scelta denota forse un po’ di incertezza da parte dell’autore, come se temesse che lo spettacolo debba essere alleggerito perché il pubblico ne possa usufruire. Sarebbe l’unico tentennamento in un progetto di raro coraggio, e per questo potrebbe risultare interessante ricorrere con meno frequenza al commento musicale.
Del resto, “Il pubblico deve essere intelligente” dice Eduardo; e la cosa più bella di questo spettacolo, è che per goderne bisogna ammettere la sua gravità, capire che certe cose non possono essere dette in maniera facile. Insomma, ci risiamo: “Ti devi complicare la vita”.
Visto al Teatro di Rifredi il 9 febbraio 2023