UBUD (BALI) – In anni in cui Mangia prega ama è un best seller tale da scomodare una tra le star hollywoodiane meglio pagate per impersonarne la protagonista (autrice del libro), siamo a Bali sulle orme di Artaud, un po’ scettici verso quella spiritualità intrinseca che il genio francese intravvedeva nelle danze tipiche, mentre la Gilbert immaginava nei due psedo-balian (guaritori tradizionali) decritti nel suo romanzo – più o meno autobiografico (vengono in mente le incongruenze sulle onde a nord di Bali, là dove il mare è liscio come l’olio…).
Prima di raccontare l’esperienza di una serata a teatro per assistere a uno spettacolo di Legong, va precisato che le famose danze balinesi, in realtà, non sono esattamente un Moloch – essendo, innanzi tutto, di diversi generi, dal Kecak, (dove la base musicale è costituita da una specie di coro a cappella di maschi che ripetono un suono ispirato al verso emesso da un branco di scimmie e la storia, raccontata dalla danza e tratta dal poema epico hindu, noto come Rāmāyana); al Baris (o danza di guerra), dove ogni danzatore deve comunicare, attraverso gesti ed espressioni del viso, pensieri e sentimenti propri del guerriero secondo l’immaginario collettivo.
In secondo luogo, le danze che i turisti vedono oggi a Bali sono semplificate e accorciate per meglio adattarsi ai palati occidentali (essendo forse ignari i balinesi che anche nell’antica Grecia, come nell’Inghilterra elisabettiana, si usava declamare tragedie che duravano una mezza giornata e oltre); soprattutto, per non oltrepassare l’ora o poco più, permettendo così al turista di andarsene a cena con tutta comodità post spettacolo e ai danzatori di rientrare economicamente della fatica, tenendo conto che il biglietto d’ingresso si aggira intorno ai 5/7 euro e il cast, quasi sempre numeroso, può essere composto perfino da un intero villaggio (particolare, questo, che deve risultare strano soprattutto agli italiani, ormai avvezzi agli onnipresenti monologhi che vanno anche a 40 euro a biglietto).
Va notato anche non sempre la qualità delle danze è tale da poter esprimere un giudizio critico sulle stesse. In molti ristoranti e hotel è d’uso (come nel resto del mondo) offrire ai turisti spettacoli che, spesso, definire amatoriali è un’esagerazione.
Ma veniamo a questa particolare esperienza, ignorando cosa abbia visto veramente Artaud. Attingendo a diverse fonti parrebbe che i danzatori balinesi abbiano proposto al pubblico parigino, un mix di Legong, Baris e Barong (danza che racconta la lotta tra il dio-animale Barong, espressione del Bene e della Fertilità, e la strega, simbolo del Male, Rangda), oltre a un video con il più grande danzatore balinese di tutti i tempi, conosciuto in Occidente con il nome I Mario, che si esibiva nel Kebyar Duduk (genere, questo, che deriva il proprio nome dai movimenti dei danzatori, eseguiti quasi esclusivamente in posizione seduta, ossia duduk).
Confrontandoci con il Legong – esibizione femminile e aggraziata – e con alcuni intermezzi di Rāmāyana e Mahābhārata, ci si domanda perché il genio francese non si sia accorto che alcune esecuzioni non differiscono minimamente – a livello di contenuti – dalla tragedia greca o persino dal canovaccio della Commedia dell’Arte (ossia dal racconto di miti o storie ben conosciuti dal pubblico), e salta subito alla mente, assistendo allo spettacolo, che gran parte del suo fascino provenga sempre dal famigerato strabismo occidentale.
Due fattori colpiscono. Il primo è che le danze balinesi, in generale, non hanno nulla di crudele nel senso artaudiano del termine, ossia come incrudelimento e, quindi, distruzione di tutto ciò che non risulti indispensabile alla forma teatrale in sé. A Bali gli spettacoli sono, al contrario, tutt’altro che grotowskianamente poveri. Costumi, scenografie (spesso costituite da strutture stabili in muratura, come nella tragedia greca), luci, musiche, trucco (a volte anche maschere); l’intero apparato del teatro occidentale è ben presente e ottimamente valorizzato in molti generi di danza. Anche il testo, o racconto, ha la sua parte, in quanto molti spettacoli si rifanno a poemi tradizionali di indubbio valore. Infine, non si comprende perché il movimento stereotipato, ad esempio, di una mano – completamente avulso da un suo corrispettivo significato nella realtà – possa considerarsi come un qualcosa di innovativo per gli occidentali, così avvezzi sia alla mimica del mattatore ottocentesco pre-Gustavo Modena, sia soprattutto (per quanto riguarda la danza) ai passi del balletto classico, perfettamente codificati e la cui esecuzione non richiede certo minor tecnica, preparazione o allenamento di quanto imposto a una danzatrice di Legong. Si dubita quasi che il genio artaudiano sia rimasto abbacinato tanto quanto lo sono quei “turisti per caso” che oggi cercano il proprio io in mete più o meno esotiche – invece che dentro di sé.
Al termine della rappresentazione – di indubbia qualità tecnica – le perplessità iniziali restano invariate: Bali: mito o realtà? Forse la sua aurea l’ha ammantata così a lungo da far credere che fosse reale. Oggi restano le botteghe artistiche degenerate a cianfrusaglie da rigattiere, negozi di bibelot a prezzi da Montenapoleone, e una serie di spettacoli – alcuni dei quali indubbiamente di valore – che, molto spesso, sono ormai ridotti all’ombra turistica del che furono.
Visto a Ubud, domenica 8 marzo
Mix di Legong Dance & Rāmāyana
(ha collaborato, per la parte musicale, Luciano Uggè)