MILANO – Che differenza c’è fra liberazione e provocazione? E fra testimonianza e ostentazione o narrazione e “performance-mostro”, rubando la dicitura alla cartella stampa? E’ questo, quel che vien da domandarsi, uscendo, ebbri, da “MDLSX” dei Motus. Passato sulle scene milanesi nella rassegna “focus” di Zona K, uno spazio piccolo, ma attento e capace di scelte coraggiose e visionarie (lo ricordiamo fra i primi ad aver ospitato i Rimini Protokoll, quest’anno di nuovo in stagione insieme a “Please, continue (Hamlet)”), dall’8 al 12 marzo ha raccolto i tantissimi curiosi accorsi attorno a quest’altro evento. La stessa drammaturga/regista Daniela Nicolò spiega di preferire la versione contratta, “MDLSX”, appunto, all’esteso “Middlesex”: quasi che l’esplicitazione delle vocali contribuisse a dare una determinazione sessuale, spiega durante un’intervista radio. Cos’è? “i” sta per “maschile” ed “e” per “femminile”? Chi lo stabilisce? E perché? Già i presupposti paiono curiosi…
Mentre s’inneggia alla liberazione da etichette e schemi precostituiti, rivendicando una libertà di essere e di agire, che vada oltre alle determinazioni di sesso, genere e nazione – e perfino oltre alla normatività di un’auto definizione data una volta e per tutte -, di fatto ogni singola parole viene scelta e sostenuta con una forza, che si colora subito di battaglia politica e fors’anche ideologica. Così lo spettacolo, o forse la performance – non vorremmo utilizzare termini inappropriati -, vede in scena l’ottima Silvia Calderoni che, al giro di boa della sua collaborazione decennale con la compagnia, si ritaglia uno spazio proprio. Si racconta, sì, ma alla sua maniera. Non ripercorre le tappe auto celebrative degli spettacoli fatti insieme, ma ci regala la sua cifra vivendi. “Siamo tutti fatti di molte parti… di altre metà… non solo io”, dice. Finalmente consapevole di “quella normalità che non è normale”, si scaglia “contro ai maledetti conformisti […], idioti preoccupati solo di non commettere scandalo”. “E chi la fa franca, lo condannano con tutto l’essere loro: con tutto il loro istinto di sopravvivenza”. E qui che diventa politica: facendo proprie parole non sue, accusa il sistema capitalistico di un’omofobia, spia della paura che venga intaccato il sistema di riproduzione su cui si sostiene. Una biografia sui generis, un patchwork lisergico, giocato fra quel che ha vissuto e quel che avrebbe potuto vivere, in bilico fra “Gender Trouble” e “Undoing Gender”, Judith Butler, A Cyborg, fra “Manifesto” di Donna Haraway, “Manifesto Contra-sexual” di Paul B. Preciado e altri cut-up dal caleidoscopico universo dei Manifesti Queer.
Un’ auto fiction: così viene definito questo gioco scenico fra dj-set e video proiezioni, fra filmini della sua adolescenza – l’occhio della madre a scrutarla e riprenderla in un impietoso e preteso asettico come-tu-mi-vuoi – e video auto selfie, in cui invece sembra lei regista, critica e somministratrice della sua stessa immagine. Ma nessuno sfugge dall’occhio giudicante di chi ci sta di fronte, questo lo stigma e la tesi contro cui ribellarsi. Siamo tutti “mostri”, come si arriva ad argomentare nell’estratto sull’ermafrodito, che non può non toccare perfino lo spettatore più corazzato. E, così, mentre algidamente sfida a singolar tenzone gli stereotipi di quest’epoca liquida, diventando lei stessa provocatrice estrema di quel che può mostrare un bulimico delirio voyeristico, per altro aspetto cade a sua volta vittima di questa noverca, sempre pregna e consacrata all’ineluttabilità dell’immagine. E’ un doppio impegno, quello della Calderoli: attrice – meglio, performer, con un’ efficacia e pulizia di movimento, dal gesto iper preciso, ma che rischia però di svilirne l’autenticità -, e regista tecnico in scena; un mix che, se la mette al riparo emotivo dal prolasso catartico, forse rischia di negare anche al fruitore quello speculare abbandono, da sempre specificità della dimensione ecumenica del fare teatro. Al di là della forza della azione drammaturgica – sferzante e a volte disturbante per esibizione esplicita o ostentata -, al di là dei contenuti letterari e filosofici – ricercati, sì, ma non per questo incomprensibili -, quel che resta è quel tappeto/triangolo, puntato dritto alla platea, un po’ a farla vertice inclusivo, un po’, forse, tacito indice a sollecitarne una presa di posizione.
E poi il sempiterno dubbio, che spesso ci accompagna, all’uscita da questo genere di spettacoli: fatta salva la sacrosanta poetica degli artisti, davvero non c’era un altro modo per dirlo?
Svestirsi dei propri panni biografici per indossare abiti da uomini – nel racconto del gender bedding Calliope mutatosi in Cal, ad esempio -, mostrare nudità impietose e supplichevoli di riconoscimento fino addirittura a calarsi nella coda di una sirena, quasi che neppure quella di essere umano sia una condizione incontrovertibile sembrano essere le sole esibizioni possibili. E denudarsi l’anima? Forse questo sì, sarebbe il vero scandalo. In barba a chi lo scandalo rifugge o persegue come opposte declinazioni di un non saper fino in fondo affrontare il mostro, che soggiorna in ciascuno di noi. Apollineo e dionisiaco, sacro e profano, maniera e ostentazione, conformismo e provocazione; poesia, dicono alcuni. Forse solo quell’ “ agitarsi alterno/ fra paradiso e inferno/ che non s’accheta più!”, in cui già Boito declinava il perturbante, solo signore e padrone che da sempre domina ogni vero artista. E’ su questo, che in fondo indugia questa post moderna cavalcata di una Valchiria, che chiosa il suo dj set lisergico, da avanguardia/postguardia, con la significativa traccia “De imitation of life”-
“MDLSX” dei Mutus, regia di Enrico Casagrane drammaturgia di Daniela Nicolò e Silvia Calderoni Visto a Milano il 9 marzo 2016.