La forma delle cose dipende dal nome che impariamo a dare da bambini. Se un bambino fosse nato e cresciuto in una stanza senza mai uscirne, sarebbe portato a credere che la stanza sia l’unico mondo conosciuto e conoscibile. Fuori esiste il mondo vero ma il bambino non può saperlo da solo. Se qualcuno gli dicesse che il suo mondo, quello che lui crede essere tale, non è reale, il bambino a primo impatto non gli crederebbe, ma poi forse, inizierebbe a porsi delle domande.
Room è l’ultimo film diretto da Lenny Abrahamson e tratto dal romanzo Stanza, letto, armadio, specchio (2010) della scrittrice Emma Donoghue. Le prime scene sono immagini a scatti descritte da un bambino di cinque anni, che si chiama Jack. Jack è nato e cresciuto all’interno di una stanza senza finestre, ha un cane immaginario di nome Lucky e costruisce giochi artigianali come il serpente di uova. Nonostante le condizioni precarie Jack vive la vita come una fiaba (non è casuale che legga Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll), e riesce ad avere anche alcuni momenti di gioia insieme alla madre Joy. L’unico contatto che Joy ha con l’esterno è un uomo, che scopriamo in seguito essere il suo rapitore, il quale da sette anni la tiene reclusa all’interno di un capanno esigendo da lei la sua dose quotidiana di sesso. Anche se la cosa viene soltanto sottintesa, Jack è il figlio di una violenza senza amore.
Per Jack la stanza rappresenta il mondo, per Joy invece è la sua prigione fisica e mentale. La crisi dovuta alla segregazione diventa progressivamente rivoluzione. Per uscire serve un piano di fuga infallibile. Fuggire significa però provocare a Jack un dolore che metterà in discussione il suo modo di vivere: Joy infatti confida al figlio la storia del rapimento e immediatamente la fiaba diventa dramma e poi nuovamente fiaba ed avventura. Le pareti della stanza iniziano a disgregarsi e il mondo esterno prende forma attraverso il racconto. Jack inizia a farsi delle domande e capisce che la stanza è il mondo all’incontrario di Alice. I suoi dubbi emergono quando parlando di sé e della madre dice “le persone della TV sono piatte, il mare non esiste perché è troppo grande per stare in stanza, ma io e te siamo veri”.
Il rapporto madre-figlio è simbiotico ed è la colonna portante di tutta la storia. Dove finisce l’una inizia l’altro. Per il bambino infatti l’unica persona conosciuta è Mà, mentre per la madre il figlio rappresenta quel pezzetto di cielo che vede attraverso il vetro del lucernario e quindi la sua salvezza.Nella prima parte del film la sensazione è di claustrofobia, anche se il regista decide di stemperare il dramma psicologico di Joy attraverso lo sguardo innocente e disincantato di Jack. Dentro la stanza c’è una forte connotazione spaziale e temporale. Lo spazio è identificato con pochi oggetti danno un senso compiuto alle azioni di Jack, mentre il tempo scorre secondo dei riti e delle regole precise, come fare il bagno prima di andare a letto.
A partire dall’uscita dalla stanza il film cambia decisamente rotta. Il mondo vero è fatto di fotogrammi veloci di nuvole, alberi, foglie e persone ed è talmente grande da fare male agli occhi. Sugli occhi pieni di meraviglia si stringe frequentemente la macchina da presa.
Tuttavia nella seconda metà del film la libertà riconquistata sembra non essere la soluzione al dramma. Dopo il primo choc per cui Jack crede di essere su un altro pianeta, segue la rinascita. Da un punto di vista dello sviluppo cognitivo siamo nella fase che Jean Piaget definisce del pensiero intuitivo. Per Jack è come venire al mondo per la seconda volta: si confronta con tutto ciò che non conosce, dai giochi agli esseri umani, e attraverso la socializzazione sviluppa la sua creatività adeguandosi alle diverse circostanze. Attraverso le continue esperienze Jack acquisisce anche dei metri di paragone che prima non poteva avere. In un dialogo con la nonna Jack racconta che la stanza in cui ha vissuto era infinita ed andava in tutte le direzioni, quando poi ci torna non la riconosce perché lo spazio gli sembra improvvisamente rimpicciolito.
Sul fronte opposto sta la reazione della madre. Joy non riesce ad accettare quello che le è successo e reagisce con violenza ai gesti di amore della madre e del figlio. Entra in depressione fino a tentare il suicidio, ma anche in questo caso il figlio è la sua salvezza. Anche Joy torna lentamente a vivere e riesce, in un atto estremo di coraggio, a ritornare per un’ultima volta in quella che per sette anni è stata la sua prigione.
La scelta del regista è stata quella di affidare la storia ad un narratore interno, che appunto è Jack. La vicenda, per quanto drammatica, è quindi filtrata attraverso lo sguardo meravigliato di un bambino e questo porta lo spettatore a vivere le esperienze comuni della vita come se le sperimentasse per la prima volta. Tutto il film è quindi una poesia, compresi i momenti di reclusione. Entrambi i personaggi sono stati resi da una recitazione molto emotiva ed intensa. L’interpretazione di Jacob Tremblay, attore di appena dieci anni che ha vestito i panni di Jack, è sorprendente per la capacità di guardare al mondo in maniera romantica. L’interpretazione di Brie Larson non ha lasciato equivoci al premio Oscar come miglior attrice protagonista per il modo intenso, a volte feroce, di avere interpretato un personaggio così complesso e di avere raccontato in punta di piedi una storia di violenza come se si trattasse di una fiaba.