CATANIA – Quello di Salvo Gennuso e della sua compagnia “Statale 114” è lavoro un teatrale che si potrebbe definire prismatico: si concentra su un oggetto o sul fantasma di un oggetto, e lo affronta illuminandone di volta in volta, di spettacolo in spettacolo, facce diverse. Ma non si tratta d’illuminazioni tese a chiarire concetti, a definirne stabili coordinate interpretative, quanto, invece, focus di immagini, volti, ossessioni, microstorie e scelte registiche, che restano erranti e sostanzialmente si concretizzano in interrogazioni, domande, tentativi, riprese dello stesso concetto sotto altri profili (altre facce dello stesso prisma). Di qui, per altro, il sapore alquanto intellettualistico di questo teatro e le frequenti, più o meno scoperte e giustificate, citazioni. Da qualche anno questo regista, tra i cui pregi c’è sicuramente lo sguardo curioso su quanto accade nella dimensione europea della ricerca teatrale e filosofica (e specialmente su quanto accade in Francia), incentra la sua ricerca sulla questione del “femminile”, ovvero sulle peculiarità del rapporto delle donne con la realtà e la storia. E certo non è uno sguardo distratto, o inconsapevole dell’enorme, strutturalmente violenta, coltre di silenzio che ha avvolto nei millenni della nostra civiltà questa sfera dell’umano. È quanto viene da pensare dopo aver visto “Un amore di famiglia”, di cui Gennuso è anche autore del testo. In scena recitano Roberta Raciti (Anna/Emma) ed Elaine Bonsangue (Maria), dove la regia indaga con passione la dimensione del femminile nel contesto del disgregarsi contemporaneo della tradizionale istituzione familiare. Disgregarsi? Forse per il regista sarebbe più appropriato dire del “rivelarsi” dell’istituzione familiare nella sua natura più profonda, arcaica, quasi archetipica, ovvero nella sua natura coercitiva e in qualche modo violenta, soprattutto nei confronti delle donne. Ecco che allora la travolgente vicenda amorosa omosessuale di Anna/Emma, un medico capace di essere cinica con i pazienti e con gli uomini che la corteggiano e con alle spalle una madre che non ha saputo far di meglio che darla in adozione, (mentre Maria è delusa dalle sue precedenti storie con gli uomini), assume non soltanto una rilevanza privata ma, nel ribellarsi, e rifiutare le rispettive dimensioni familiari precedenti. Si evidenzia anche un ’automatica possibilità di costruirne di nuove e “regolari” , capaci di assumere una dimensione pubblica e, potremmo dire, politica che, nella sua esibita e scandalosa autenticità spirituale e carnale, interroga tutti: il drammaturgo e regista, le stesse attrici in scena, lo stesso pubblico. Un quesito che non lascia scampo ed anzi esige con forza attenzione e assunzione di responsabilità, sin dai primi istanti dello spettacolo, quando in un inserto video una bambina su un’altalena recita i versetti del profeta Isaia, riportati in Matteo 13: “Udrete, sì, ma non comprenderete, / guarderete, sì, ma non vedrete. / Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, / sono diventati duri di orecchi / e hanno chiuso gli occhi,/ perché non vedano con gli occhi, /non ascoltino con gli orecchi/ e non comprendano con il cuore / e non si convertano e io li guarisca!”. Alla fine sarà Edipo in persona a punire il pubblico per non aver saputo, o voluto, vedere davvero quanto di terribile stava accadendo davanti ai suoi occhi.
“Un amore di famiglia”
Visto al Centro Zo, Catania, nel contesto della rassegna “Altre scene” il 5 aprile 2016.
Con Elaine Bonsangue e Roberta Raciti. Testo, regia e scene di Salvo Gennuso. Aiuto regia Sade Patti, regia luci di Segolene Le Contellec, direttore tecnico Aldo Ciulla, oggetti di scena di Salvo Pappalardo, foto di scena di Gianluigi Primaverile, organizzazione di Silvio Parito e Centro Zo. Collaboratori alla realizzazione della scena Raffaella D’Amico e Silvio Zanin. Produzione “Statale 114”.