BUTI – Dario Marconcini non è nuovo a scovare testi inediti e mai rappresentati di grandi autori contemporanei internazionali e a cimentarsi con micro pièces in controtendenza, magari di non facile appetibilità per un pubblico teatrale avvezzo a ben altro. Ma questo del resto è il coraggio che l’ha contraddistinto nella sua lunga permanenza alla direzione artistica del Teatro di Buti. Così la prima a cui abbiamo assistito si è rivelata al solito, come un omaggio al Nobel Harold Pinter– autore molto amato dal regista e attore e da Giovanna Daddi, e una prova magistrale da parte dei tre monologanti in scena, Ellen ( Giovanna Daddi in tailleur grigio) , Rumsey , Emanuele Carucci Viterbi in tenuta da cavallerizzo e Bates, lo stesso in versione country Dario Marconcini.
Testo inedito ( è del 1969) “Silence” e quasi mai rappresentato nella bella traduzione di Alessandra Serra, definito dallo stesso autore complesso a causa della “sua struttura piuttosto difficile” tanto da richiedergli diverse stesure, è di una modernità sconvolgente. Tre personaggi in scena con storie intrecciate, tre solitudini assolute che dell’incomunicabilità cifrano le proprie monologanti aporie, aggrappati ai loro sgabelli uno di fianco all’altro, vicini ma ineffabilmente separati, sullo sfondo della campagna inglese , tre singole finestre , tre ferite-feritoie, forse bovindo su un paesaggio astratto di rami di bosco d’inverno. La scena e le luci ideate da Riccardo Gargiulo e Valeria Foti, rimarcano la liquidità dello sfondo a misurare e dilatare il senso della rarefazione degli spazi, dei gesti e del parlato- quel gradiente che è specchio esistenziale del“ guardar fuori- guardarsi dentro”.
E’ il testo qui a fare da padrone, e come potrebbe non esserlo, in questa mezzora di spettacolo. Poesia allo stato puro ma adattata ad un trattamento da micro pièces come ci ha abituati quel geniaccio arrabbiato di Pinter. Al centro del discorso di tutti e tre i personaggi vi è la memoria, una memoria pesante, franta, scheggiata di vissuti che in una maniera o in un’altra hanno interagito in una vita passata e che provano a raccontarsi nel presente, un presente disattuale tutto impastato di reminescenze apodittiche, attraverso microflashback, ripetizioni di luoghi, azioni, forme, parole irrisuonanti, il tutto dentro una narrazione in forma circolare ossessiva-che a me ha ricordato anche un certo modo di scrivere per la scena del grande Thomas Bernhard in certe sue drammaturgie (specie in Ritter Dene Voss).
La circolarità della scrittura è dotazione sicura di questo inglese che non cessa di stupire a distanza di decenni per la modernità del suo tratto che incide come un maglio e fa della parola una costruzione classica a scandagliare nei meandri della psiche, i misteri della circonvoluzione del discorso che non dice non parla ( per dirla alla Lacan) gira a vuoto fino a raggiungere per sottrazione e per necessario punto d’arrivo, stazione fine corsa al punto esatto nel centro esatto che solo può essere occupato dallo spartito della parola “silenzio”.
Del resto Pinter la questione del “ silenzio” l’ha trattata spesso nei suoi lavori, per esempio in Ache( testo del 1959). Stessa ambientazione antiteatrale: una stanza (topos letterario pinteriano), tre personaggi una donna e due uomini. Il terzo incomodo sposta fuori il e dal discorso. In questo Silence sembra essere la donna la vera protagonista della insana misteriosa relazione a tre. Si intravede una incestuosità (nella piece originale la ragazza è parecchio più giovane dei due).
Forse una trasfigurazione di una relazione antica col padre (sulle ginocchia un bacio sulla guancia destra uno sulla sinistra). Una relazione sessuale che appartiene al passato dei tre? Spezzoni di storie si susseguono a rimbalzo: lei (loro) raccontano a ruota di passeggiate, di paesaggi londinesi con latrati di cani, di latte (qui c’è il riferimento a Dylan Thomas col suo Sotto il bosco di latte, ma c’è anche il monologo della Molly Bloom di Joyce). Il flusso di coscienza passa ai due uomini, coi loro vissuti, le loro reminescenze. Lei è la bambina, motore che accende desiderio, impone ascolto. Che non si dà se non per schegge, ricordi, assiomi, percezioni della natura di suoni, animali – i cani, appunto, sensorialità specie visiva- ma anche la discarica, il fetore, la sporcizia fuori e dentro. Le frasi, ossessivamente, si ripetono nella scansione ideata da Pinter fino ad assottigliarsi come echi per approdare alla smemorizzazione, quasi da malattia, quasi ripetizione ossessiva di chi ha perso quei neuroni che sono potrebbero essere ancora, autocoscienza.
In una mezzora, insomma, una densità di storie inenarrabili, perché ciascuno la stessa storia se la racconta a modo suo, colla sua piccola memoria. Con ciò che vuole ricordare, veramente coi limiti della propria età che comunque incide parecchio, nel ricordare. E tutto il resto oltre la verbosità oltre il troppo, richiede la lezione della pulizia, quella del silenzio.
Visto al Teatro Francesco di Bartolo di Buti di il 5 maggio 2014