RUMOR(S)CENA – ROMA – È andato in scena alla Cappella Orsini “Pinocchio arrovesciato”, di Marco Buzzi Maresca, con Bruno Petrosino e Giuliana Adezio, la voice off di Gianni De Feo e gli inserti sonori e le musiche originali di Adriano D’Amico. Una riscrittura del Pinocchio collodiano , a prima vista, che si rivela ben diversa dall’originale. Questo “Pinocchio arrovesciato” di Buzzi è molto di più. Sorprende, scuote, annichilisce, seduce. La si ama o la si detesta. Impossibile lasci indifferenti. Una pièce che è un labirinto psicoanalitico del quale si teme di non poter evadere. Nella location opulenta della Cappella Orsini, al centro della Capitale, incastonata in questo profluvio – quasi un horror vacui – di dipinti, fronde, sculture, ninnoli e antichità, si innesta lo spazio scenico. Sul fondo, un piccolo sipario dal quale escono gli attori – mentre gli spettatori sono letteralmente immersi nella messa in scena, siedono sulle numerose poltrone vicinissime al proscenio . Un tourbillon di Eros, manipolazione, sortilegio, in piena tradizione avanguardistica. La narrazione gravita tutta attorno al triangolo sadomasochistico Padre, Madre, Figlio – Pinocchio, riscritto come un Puer Aeternus. I cenni sono ad una Trinità che ha ben poco di sacro: più che profana, appare cultuale.
È una pièce asfittica, claustrofobica, ove la soglia tra riscrittura di Collodi e pugnace analisi autobiografica, tra sogno e realtà, tra delirio – quasi un trip da acidi- e voce cosciente, si fa labile, lasco sino a sfaldarsi. Il confine tra la ricostruzione filologica del classico collodiano e il Memoir privato – forse denuncia e testamento, non voluto, di una generazione?- appare opaco, perciò più ossessionante ancora.
Varie le letture praticabili, lasciate al pubblico, turbato e certamente impressionato dalla messa in scena. La drammaturgia di Buzzi, colta e nutrita di solidi riferimenti letterari e psicoanalitici, brilla per una capacità se non autentica vocazione nel coniugare il lirismo di certi classici greci con un eloquio crudo, triviale, a tratti scatologico, ma efficace, con un’attenzione rivolta al parlato, unita ad una sottile venatura di sagacia, che si palesa nel sottotesto, nell’utilizzo delle dinamiche e dei movimenti di scena, nella interpretazione degli attori. Particolarmente intensa, ora macabra ora disturbante, potente come poche, in piena tradizione “studio 65”, dal quale proviene, è la prova dell’attrice Giuliana Adezio.
Abile anche il protagonista , che nel suo battere e levare riesce a restituire la parvenza di candore unita al sadismo, alla vis distruttiva, all’abitudine alla crudeltà. Una anatomia della efferatezza dell’ agito filiale, sia essa verbale, passivo aggressiva, comportamentale. Parrebbe una denuncia alla disintegrazione dell’arcipelago familiare degli ultimi quaranta anni. Una fenomenologia delle dinamiche tossiche tra, da un lato, i genitori egomani, accentratori ed emotivamente immaturi per adempiere al ruolo, e, dall’altro, i figli acerbi ed impreparati alla vita, naturalmente tendenti al male, che da praticare è senz’altro più facile del bene. Figli allo sbaraglio che non hanno modelli positivi da emulare, ma solo mostri di egoismo e perversione narcisistica. Campioni di inettitudine e acrasia e immobilismo psichico. Possono solo dare fuoco alle polveri e rovinarsi la vita rovinando quella di chi li circonda. Figli permeabili , falliti come esseri umani, al punto di superare i (cattivi) maestri che li hanno cresciuti ignorandoli, frustrandoli, bistrattandoli, usandogli violenza . Dando loro il cattivo esempio. Pinocchio dunque è un archetipo: rappresenta tutti i giovani, o meno giovani. Pinocchio è la generazione dei figli, di oggi e di ieri, immaturi e sciagurati , poiché destinati a crescere con lo stigma dell’analfabetismo sentimentale, emotivo e relazionale. Della tossicità nei rapporti endofamiliari – una dinamica molto italiana, arcaizzante – che replicheranno in qualunque relazione futura ed estranea al nido domestico.
Condannati a diventare adulti senza maturità, come hanno fatto i padri prima di loro . Pinocchio è il ritratto dei figli che incarnano tutti i vizi e i difetti peggiori degli avi, e alla fine possono solo darsi la morte. Non senza prima essersi autoflagellati, col placet oscuro e morboso della madre che li ha sessualizzati, e all’ombra terribile del padre alla cui altezza non sono mai stati. O non si sono mai sentiti. Pregnante la denuncia al retaggio cattolico, al culto paternalistico – molto meridionale – del patriarca ma anche al matriarcato mediterraneo, che cagiona danni irreversibili nel tessuto sociale. Si pensi ai recenti casi di cronaca. La regia di Buzzi Maresca è volutamente visionaria, agghiacciante, densa di suggestioni, altamente simbolica, a tratti – (volutamente?)- grottesca , rasentando il kitsch bernhardiano. Una pièce che si articola si più livelli narrativi, a un tempo scarto temporale diacronico nell’infanzia e esistenza di questo Pinocchio “riscritto”, ma anche sovrapposizione dei tre caratteri delineati con sapienza – e a ben vedere distillato e portato di un carattere che è uno e trino, come la croce in legno che il giovane, neanche troppo giovane, Pinocchio reca in mano: il crocifisso viene simbolicamente vestito, tramutandosi a sua volta in burattino, dove tutti e tre sono tragicamente immaturi. Oltreché facili prede di pulsioni, perversioni, istinti ferini, dominanza narcisistico-patologica : il ritratto della famiglia irregolare, disfunzionale di oggi – di certa Italia, almeno. Dell’Italia dei maschi violenti, senza dimenticare che sono le donne ad educare gli uomini.
Chi è la vittima, chi il carnefice? Il figlio che ha replicato il legame sadico ed erotico, morboso all’ennesima potenza, con questa madre Matrigna, la grande Madre che ha in sé i germi del più occulto, oscuro primitivismo, dalle risa e le movenze sinistre di totem, dea africana e maschera tragica – è lui il colpevole?O la madre stessa, descritta come lubrica, lasciva, definita a più riprese “puttana” e priva della volontà di mettere al mondo un figlio? O ancora, questo padre che è deificazione del super ego, e quasi fosse un demiurgo platonico, un faber wagneriano, ha plasmato il figlio ponendolo in continua competizione con se stesso nelle dinamiche tossiche ed erotiche con la madre? In effetti, l’ago di questo “arrovesciamento” postcollodiano, il pungolo, è il padre, che solo nel finale si palesa, ma è presenza costante, altamente disturbante, per tutta la durata della pièce, con la voce off – l’abilissimo Gianni De Feo . Si staglia al centro della scena, quasi una emersione simbolica da dietro il separè di gusto nipponico, e ci appare deificazione del Pater e a un tempo simulacro accuratissimo del teatro Nō.
Visto l’8 giugno 2023 alla Cappella Orsini di Roma
Pinocchio arrovesciato di Marco Buzzi Maresca
LETTURA SCENICA di Bruno Petrosino e Giuliana Adezio
Voce off Gianni De Feo
Effetti sonori e musiche originali Adriano D’Amico