I lavori del campus del Laboratorio Internazionale di Teatro Venezia 2012 si si sono conclusi e la redazione del laboratorio di critica della Biennale si interroga sul significato della presenza di centocinquanta laboratoristi tra attori, registi e drammaturghi giunti da ogni parte del mondo, propondendo, ad alcuni di loro, un format di domande sul senso del loro lavoro.
Rumor(s)cena ha incontrato Fabrizio Nevola. 33 anni. Attore. Diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.
Qual è lo spettacolo che ti ha cambiato la vita?
“Sicuramente Peccato che fosse puttana di Luca Ronconi. È stato il primo spettacolo che ho visto al teatro Stabile di Napoli, ed è in quel momento ho deciso di fare l’attore. Rimasi completamente affascinato da quella scenografia enorme, piena di colonne, che invadeva anche la platea, e da come gli attori ci giocassero, saltando da un praticabile all’altro. Anche il loro modo di parlare era sorprendente: recitavano delle battute assolutamente letterarie agganciandole concretamente alla situazione in cui agivano. Mi colpì cosi tanto che capii che quella poteva essere la mia strada e così mi sono iscritto all’accademia.
A ripensarci è curioso: ho cominciato a fare l’attore dopo aver visto uno spettacolo di Ronconi e poi sono finito a lavorare proprio con lui.”
Costi e ricavi: un bilancio del laboratorio veneziano
“Il laboratorio di Ronconi, quello che io ho frequentato, ha avuto uno sviluppo abbastanza “particolare”. Che io sappia non era nelle sue intenzioni fare un workshop per attori bensì per soli registi. Per una serie di dinamiche che non conosco ciò non è stato possibile per cuila Biennalesi è organizzata diversamente.
Quindi noi attori ci siamo trovati “obbligati” a lavorare con giovani registi che non abbiamo scelto. E i registi stessi hanno dovuto dirigere attori che hanno potuto scegliere solo sulla carta, da un curriculum.
Per queste ragioni nei primi giorni di laboratorio eravamo tutti un po’ nervosi, irritati. Io per primo mi sono sentito in difficoltà. Una po’ alla volta, poi, ho scoperto che la situazione stava diventando interessante. Il percorso con Claudio Autelli, il regista con cui ho lavorato, si è rivelato utile. Ma soprattutto è stato stimolante conoscere ben quattro realtà registiche: è un po’ come se avessi fatto cinque laboratori in uno.
Tra l’altro, delle occasioni come queste, apprezzo molto la possibilità di confrontarmi non tanto con i metodi istituzionali (della Biennale in questo caso) o dei Maestri coinvolti, quanto con i metodi degli altri attori che partecipano come laboratoristi. Spagnoli, inglesi, italiani: si crea un melting pot di artisti che ti permette di allargare i tuoi orizzonti teatrali, di renderti conto che puoi rubare tanto.
Dal punto di vista pratico confesso che essere alloggiato su un’isola a Venezia è stato un problema. Ai costi del laboratorio e della permanenza si è sommato quello, piuttosto alto, dell’abbonamento al vaporetto. Credo che l’organizzazione della Biennale avrebbe dovuto prevedere almeno una riduzione o una convenzione per i trasporti a favore dei partecipanti.”
Cosa vuol dire fare teatro in tempo di crisi?
“Fare teatro in tempo di crisi è fondamentale: l’epicità e gli ideali del racconto teatrale possono servire a ritrovare interesse in quei valori che nella vita si sono persi. Certo, il problema è che essendo in crisi il sistema economico è difficile trovare risorse. Però credo che quella d’attore sia più una condizione di vita che di lavoro: crisi o non crisi si continua a lavorare. Personalmente non ricordo tempi d’oro, sono sempre stato in crisi; quella che viviamo adesso, per me, non è che una delle tante. “