MILANO – Resta in scena, al Teatro della Contraddizione di Milano, fino a domenica 15 ottobre come da loro consueta programmazione, il doppio spettacolo di Teatrino Controverso, “Mari/age” e “Lo zompo”. La formula è sempre quella: il germe, momento di improvvisazione nel foyer del teatro – nessuna anticipazione dello spettacolo, ma solo un modo per accompagnare per mano lo sceltissimo pubblico all’interno delle atmosfere – e poi la doppia proposta, intervallata da uno spontaneo momento conviviale, annaffiato da un bicchiere di prosecco. Non sarà sempre così, la formula doppietta verrà replicata ancora soltanto in alcune occasioni: dal 23 al 26 novembre, dove si alterneranno la compagnia di danza Sanpapié con quella di prosa Garbuggino/Ventriglia; dall’8 all’11 gennaio 2018, Odemà e Mr Puma e poi ancora, dal 15 al 18 marzo, Gruppo ImProvvisorio e DimistriCanessa, dal 5 all’8 aprile, Luigi Guaineri e VuotoPerPieno, dal 19 al 22, Rossella Raimondi e Grognon Fréres, per concludere, dal 3 al 6 giugno, con Elektromove e TIDA Théâtre Danse.
In questo week end, l’unicum di una personale dedicata ad un autore, Rosario Palazzolo (premio ANCT 2016), alcuni forse lo ricorderanno per “Letizia forever” – spettacolo vincitore della Biennale Marte Live (Sicilia) 2014, Premio Festival Teatri di Vetro 2014, Selezione Torino Fringe Festival 2015 – con in scena un superbo Salvatore Nocera. Anche qui la sua scrittura si conferma come un’esplosione pirotecnica. Gioca sulle idiosincrasie contro il perbenismo di un mondo conformato, stereotipato e di provincia. Teatrino Controverso nasce ed opera a Palermo, si munisce di iperboli, cortocircuiti di senso, salti di pensiero e parola, in un virtuosismo drammaturgico e non solo linguistico. Mastica uno stentato italiano ancora profondamente incrostato da un dialetto, che si fa lingua viva, specie nel rigurgito incontenibile della verità del personaggio, in un’ostentata cultura pop-trash, che svela, in modo solo apparentemente spontaneo, retroscena grotteschi e spesso agghiaccianti. Spiazzante trovarsi al cospetto dell’abisso, essendo partiti da situazioni talmente colorate, da quasi sorriderne. È il grottesco, lo scandalo del velo che si squarcia e, quel che finalmente ci manifesta, tanto ci era parso ora questo ora quello, che, ora, non sappiamo che restare attoniti come di fronte a quella rivelazione, oggetto de “Lo zompo”, che, quando avviene, all’improvviso “Accende, tutte insieme, le lampadine del comprendonio”, dice il protagonista.
È l’agghiacciante verità che si palesa: il non senso, il torbido, l’irrazionale. E’ il dionisiaco latente, che improvvisamente ruggisce nella maschera deformata del mostro. E’ un sentire che affonda le radici nella Sicilia di Pirandello e, prima ancora, nell’eterno antagonismo non tanto fra Bene e Male, ma fra Razionale (ergo “conformato”) e Irrazionale (come pulsione vitale, anche, e proprio per questo vanamente incontenibile) dei primordi, poi incanalato e sublimato nella catarsi della tragedia greca (prima che infilasse la pericolosa china orgiastica dei Misteri e delle Baccanti).
È quell’ancestrale che riaffiora e che, non a caso, troviamo, sia pur con toni e modi differenti, in tanta parte della più interessante produzione contemporanea made in sud (da Saverio La Ruina a Mimmo Borrelli a Vetrano/Randisi, solo per citarne alcuni). Premesso questo, cosa ci raccontano e dove ci portano i due testi in scena al Teatro della Contraddizione?: “Tossici” e al tempo stesso apparentemente innocui come una sigaretta aspirata con leggerezza in un momento di agognato relax – davvero interessante, la campagna di comunicazione del trio Linzi/Brignone/Faroldi di quest’anno. Il libretto presenta tanto la stagione quanto i singoli spettacoli attraverso pacchetti di sigarette, con tanto di monito dal sarcastico: “Il teatro uccide vivi per i tuoi cari”; al più goliardico: “La cultura aumenta il rischio d’impotenza”, in sintonia perfetta con la filosofia provocatoria di quello spazio, giocato fra kitsch e élitarismo intellettuale, tanto da esporre, nel foyer, fra i tanti cimeli, una foto-ritratto in bianco e nero, del padre dello spleen, tanto da far si che si pongano l’uno in rapporto di gemmazione dell’altro. “Lo zompo” isola ed espande un episodio citato quasi solo én passant in “Mari/age”; eppure, se la performance di Palazzolo – lui stesso in scena, nel monologo – convince, è il testo, in questo caso, a involversi forse un po’ troppo, dilatando l’attesa per una rivelazione probabilmente non tale da giustificarne la tanto ostentata, argomentata e allambiccata procrastinazione.
Il protagonista è Nunzio, quel professore di matematica – a sottolinearne la proclive pertinacia scientifico-argomentativa -, a cui fa cenno Samanta, la sposa di “Mari/age”, nell’insistente involontario stigmatizzare quell’ipocrisia sociale, che non risparmia nemmeno la Madonna. In questo “Lo zompo”, si ricava un cammeo, in cui raccontare, dal suo punto di vista, la vicenda di strumentalizzazione, a cui la devozione popolare ha sottoposto la ragazza. Non più Samanta, ma Maria, così la ribattezza la superstizione popolare, costringendola ad un abuso devozionale, che riecheggia di tutti quei casi di veggenti, spesso nati in contesti socio culturali dagli strumenti cognitivi di sussistenza, alla Natuzza Evolo. Un personaggi studiato nei dettagli quello di Nunzio: dal vestito – pantalone di panno grigio scuro e poi un’improbabile camicia (a righe e a pois), vivacizzata da un papillon, che fa capolino dal pullover rigorosamente a rombi, come in un certo immaginario di “vestito casual, ma elegante” – al contegno – goffo, impacciato, garbato… ma poi esplosivo come non può non essere in un ambiente sfittico, in cui, se tuo padre fa il panettiere, tu, in omaggio a un rigido determinista verghiano, altro non puoi fare che carpirne, fin dalla più tenera età, i trucchi del mestiere. Non è pensabile altra via. E, allora, non ti resta che inventare una paura per spostare la paura. Una paura di servizio, strumentale al superamento della prima, che negli intenti dovrebbe spiegare – se non giustificare – il suo cincischiare, tentennando, rimbalzando e ritornando sui propri passi, in un mood vizioso come quella canzone, che, in sottofondo, non la smette di ronzare. Eppure, nonostante la mimica, la verve, la prossemica impeccabili, resta forse troppo un molto rumore per nulla – complice, forse, anche un pubblico per nulla complice nel rispondere alle sue provocazioni.
Di tutt’altra portata, al contrario “Mari/age”, i quattro personaggi – più la Madonna – ad inscenare il matrimonio dell’anno a tal punto sentito e partecipato che gli invitati (il pubblico, di fatto, accomodato a tavolini come in un ricevimento nuziale) è stato sorteggiato fra i tantissimi parenti e vicini, che non avrebbero potuto essere invitati tutti. Grandi cerimoniere delle nozze Fatima e Rita, le due cugine della sposa Madonnina, dalle esistenze sacrificate al servizio della Santa. Sembrano contente pur nelle loro caratterizzazioni grottesche ed antitetiche – solare, l’una, e un po’ naïve, arcigna, l’altra, e dedita alle apparenze. Qui la scrittura è tagliente e sorprendente nello svelarci, per improvvisi salti (il)logici, per scompensi e goffe improbabili compensazioni, per squarci e rigurgiti di un inconscio a forza sopito, tutto quel che cova, dietro alla facciata della convenzione, a cui, somma divinità, tutto e tutti sono immolati. Vittima, infatti, è non solo Samanta, ma anche le due cugine – chissà, forse un lontano omaggio alle sorellastre di Cenerentola, ma, qui, a ruoli invertiti: sia perché loro sono di cornice, sia perché il loro soffocato livore non è rivolto tanto verso quell’innocente, quanto verso un sistema e una Madonna, che, rendendole ancelle della Santa, ruba loro i propri sogni di realizzazione personale. Tutti sono nella loro parte gli attori, Delia Calò, Viviana Lombardo, Sabrina Petyx e Dario Raimondi, che con assoluta sicurezza cavalcano i registri più disparati, ora spillati, come falene sotto vetro, nella cristallizzazione più stereotipata, ora scatenati in quel rigurgito che irrompe in esilaranti, spiazzanti, stranianti a parte, protetti dal freez, di quella magia, che la Santa padroneggia con un semplice schiocco di dita. Così passiamo dal pop trash anni “80, come in “Letizia forever”, ad un verismo, che sa di Verga, Pirandello e di tutto il cunto, che si mormora, a mezza voce, nei vicoli di paese – dove superstizione e ignoranza vanno a braccetti pur sotto i simboli fuxia di un consumismo globalizzato.
Anche in questo caso, la storia, a tratti, prende chine oscure e fa qualche zompo – alcune questioni restano solo accennate, altre sono rese poco intellegibili sia dal dialetto, che dalle scene carnascialesche, in cui il rumore assordante si fa chiozzotto e tutto confonde. La scrittura di Palazzolo, le tematiche trattate e il livello registico e attorale, e la cura per scene e costumi, indice talvolta sottovalutato, ma chiara spia dell’attenzione dedicata, restano motivo più che valido per tener d’occhio il lavoro di questo Teatrino Controverso.
Visti a Milano, Teatro della Contraddizione, giovedì 12 ottobre 2017.