BOLZANO – Ogni stupro è una storia a sé, di drammatica ed irrisarcibile violenza sul corpo e sull’anima, di profanazione, di sopraffazione, di umiliazione, di malamore. E’ una storia comunque di morte, anche per la vittima che sopravvive, perché la sua rinascita prevede il prezzo altissimo della perdita irreversibile di una parte di sé, e lunghi percorsi interiori di dolorosa cicatrizzazione. Ogni stupro è un reato penale grave, e non ammette, o non dovrebbe ammettere attenuanti. Ma è anche un reato sociale e culturale, che cambia nelle sua valutazioni e conseguenze non solo nel tempo, ma anche nelle latitudini, e nelle culture, come l’informazione globalizzata ormai allargata a tutto il pianeta ci porta spesso dolorosamente a conoscere.
La Rassegna “L’Arte della Diversità” seguendo il filo rosso di “Dissonorata” e di Still Life”, ha portato a Bolzano lo “Stupro di Lucrezia” su uno scabro palco rosso di sangue. Valter Malosti, Alice Spisa e Jacopo Squizzato riprendendo il poemetto pubblicato da Shakespeare nel 1594 narrano una storia antica, una storia che ha esattamente 2.522 anni. Così come ce la racconta ai tempi dell’imperatore Augusto Tito Livio (“Ab urbe condida” Libri I, 57-58), è la leggenda/mito che innesca la caduta dell’ultimo dei sette Re di Roma, Tarquinio il Superbo, che tanto simpatico non doveva essere per meritarsi questo soprannome, e contestualmente la nascita della Repubblica, nel 509 a.C.
In quell’anno durante l’assedio di Ardea nobili romani e Tarquini (di origine etrusca) ingannano il tempo con una scommessa machista stupida e rischiosa: capitare a sorpresa nelle loro case per sorprendere le proprie mogli in loro assenza. Il nobile Collatino è certo della virtus della propria moglie Lucrezia, nonostante l’ora tarda, la trova tranquilla infatti mentre fila e tesse con le ancelle, mentre le nuore del re erano impegnate in ben altri divertimenti. Qui in nuce scatta il dramma, qui affiora e serpeggia lo scontro tra culture diverse, perché le donne Etrusche passavano per essere libere e libertine (allora ci passava poca differenza), uscivano, partecipavano ai banchetti insieme agli uomini sui triclini, mentre la donna romana aveva come simbolo della sua virtus il fuso, la conocchia e il telaio, tanto da portarli con sé come simbolo di status sociale e morale nella sua ultima casa, nella tomba, sotto la protezione di Athena, dea della saggezza, della guerra, ma anche delle abilità femminili. In Tito Livio l’invaghirsi e la violenza di Sesto Tarquinio, figlio del settimo ed ultimo re di Roma, assume dunque un significato fortemente simbolico.
Con Lucrezia non viene solo violata la donna, atto di per sé odioso ma non infrequente nemmeno a quei tempi, ma anche i sacri doveri di ospitalità, di alleanza, e con lei vengono profanate le virtù più alte di fedeltà e castità di tutte le donne romane. Lucrezia, dunque, non ha scampo, si deve sacrificare e il suo corpo insanguinato, portato in Campidoglio, incendia la rivolta contro la tirannia straniera, consegnando la città alla Repubblica ed ai primi due consoli, Collatino, il nobile marito privato della sua sposa, e Lucio Giunio Bruto, l’amico testimone della terribile confessione suicidio e dell’inevitabile vendetta promessa sopra il caldo sangue della vittima.
In questo senso l’esecrando stupro di Lucrezia è aggravato, perché violando la donna di Collatino si viola un’alleanza tra popoli, si tradisce la lealtà tra i nobili combattenti, si mortificano i principi dell’ospitalità. Con un solo atto, di hybris e di puro egoismo, dopo un breve quanto inutile conflitto tra fredda coscienza e passione del corpo che tutto brucia, Sesto Tarquinio demolisce tutto il sistema che nel mondo antico reggeva i rapporti tra popoli anche diversi ed avversari. Quello di Lucrezia, dunque, è un vero stupro culturale e politico, anche se questo retroterra poco appare sia nel Poemetto Shackesperiano che nella rilettura che ne dà Malosti.
Il regista, a buon titolo, modernizza la sceneggiatura accompagnando ai fraseggi cinquecenteschi un po’ lontani dal nostro sentire la brutalità diretta delle immagini dei due corpi nudi dei protagonisti che si affrontano, si sfuggono e si avvinghiano in gruppi scultorei a volte classicheggianti, a volte più prosaicamente cinematografici, accompagnati da interventi fonici ed illuminotecnici ben dosati. Gli attori interpretano i loro ruoli con grande professionalità e capacità espressiva, facendo da prezioso contraltare all’intensa e difficile l’interpretazione di Lucrezia data da Alice Spisa, inerme ed esposta nella sua fragile nudità con i monologhi più belli che Shakespeare potesse scrivere per dare voce al tormento di una donna violata. Poco importa che il suo fosse nato come un dramma politico, necessario a Tito Livio per delineare gli albori della storia di Roma; qui il dramma esplode in tutta la sua dolorosa ed intensa personale unicità, con un torrente di maledizioni, di ipotesi salvifiche subito rinnegate, di sensi di colpa e di propositi che poi si cristallizzano conducendola alla decisione estrema del sacrificio di sé. Necessario per onore, proprio e del proprio popolo.
Visto a Bolzano, Teatro di Gries l’11.4.2014 nell’ambito della rassegna “L’Arte della Diversità