MILANO – Alcune storie devono essere raccontate, meritano di essere narrate perché parlano al cuore di chi le ascolta. Un Alt(r)o Everest è una di queste: parla di montagna, ma non solo, ci descrive di una perdita, di un lutto, del dolore che atterrisce e della speranza di poter tornare a stupirsi del mondo. Jacopo Maria Bicocchi e Mattia Fabris, sono i protagonisti di questo spettacolo, due amici che decidono di scalare “The Mountain“, come viene chiamata in America, ovvero il monte Rainier. I due sono l’uno l’opposto dell’altro: Jim, interpretato da Jacopo Maria Bicocchi, è razionale; Mike, Mattia Fabris, è senza paure. Il primo è dedito alla vita coniugale, il secondo è un animo libero. I due sono legati da una profonda amicizia ma divisi da due destini anch’essi opposti e il pubblico a teatro assiste immediatamente all’attimo che li dividerà per sempre.
Jim sta scalando, sotto di lui Mike, piccona il ghiaccio, sposta lo scarpone, ma la neve non è solida, i due cadono e finiscono in un crepaccio. Sopra di loro il cielo, la neve che scende imperterrita, sotto il ghiaccio e uno strapiombo di trenta metri. Da qui si apre il racconto che si costruisce di flashback, la narrazione lascia il posto al flusso dei ricordi legati tra loro da suoni, da parole o musiche. Si muove nel passato, attraverso l’alternanza di eventi e la storia risulta abilmente legata dall’uso delle luci puntate sugli attori seguiti contiuamente nei loro spostamenti. Quando la scena si svolge all’interno del crepaccio i due protagonisti sono al centro del palco con la luce che li illumina dall’alto, mentre vengono narrati i flashback i due si spostano in fondo al palco e la luce si espande per esso. La recitazione efficace permette ai due attori di inserire personaggi non presenti in scena, come il padre di Jim, incarnato da Fabris, che lo incita a concludere la scalata. Assistiamo al racconto a ritroso di Jim, una narrazione in grado di portare dalla caduta all’interno del crepaccio, ai ricordi dei preparativi per la missione fino alla rivelazione della morte di Mike, elemento che darà una svolta decisiva allo spettacolo. Alla luce di questo evento, tutta la storia assume un altro significato e si comprende come Jim non sta narrando le sue emozionanti imprese di alpinismo, ma bensì, il racconto sofferente degli ultimi attimi vissuti insieme all’amico Mike. Dietro ai due attori sono presenti due sedie che si scompongono nel corso della narrazione: le gambe si accorciano e rimangono traballanti in cerca di un equilibrio impossibile. Dopo la caduta nel crepaccio, è un suono a riportarci alla sera in cui in un pub davanti ad una birra i due amici scelgono di scalare il monte Rainier; subito dopo la narrazione riprende e i due amici sono ancora dentro al crepaccio. Jim vede il guanto di Mike e i suoi occhiali per terra, vorrebbe chinarsi per prenderli ma sa che sarebbe una mossa azzardata. La scena si sposta nel salotto di Jim dove si svolgevano le prove delle manovre di ancoraggio da effettuare in caso di caduta in un crepaccio. All’interno di questo flashback si istaura un litigio dell’alpinista con la moglie Gloria, dove il pubblico viene chiamato in causa come se fosse la moglie e al quale i due scalatori dicono che andrà tutto bene.
Ci si chiede se non si può, almeno per un attimo, guardare dall’alto dentro al crepaccio e interrogarsi se forse quella tragedia poteva essere evitata. Invece, dentro alla voragine, Jim sa che ora da quella situazione deve uscire e che per farlo deve trovare la forza necessaria. Sarà proprio l’amico a fornirgliela ad incitarlo a superare le sue paure e compiere una scalata che è sicuramente oltre alle sue capacità. Durante l’ascesa il racconto torna ai giorni precedenti in cui, sotto le stelle, Mike aveva per l’ennesima volta ribadito il suo sogno di andare sull’Everest e si ritorna al viaggio in macchina in cui una guida alpinistica sembrava aver preannunciato l’esito infelice della scalata. Jim riesce ad uscire dal crepaccio, da questo momento, lo spettacolo assume una svolta fondamentale. La voce di Mike che lo ha guidato per tutta la scalata era solo nella sua mente, perché l’amico dallo schianto non si era salvato. Questo che potrebbe essere apparentemente un finale, invece si evolve in altro. Jim rivela la sua sofferenza, il sentimento straziante che lo ha portato a scrivere una lettera e sarà proprio l’amico a rispondere. Dopo la narrazione della morte Mike non esce di scena, rimane presente come a sottolineare che la sua assenza è solo fisica ma non sarà mai una mancanza affettiva.
La drammaturgia attenta ai particolari fa emergere la bravura dei due autori, Jacopo Maria Bicocchi e Mattia Fabris: lo spettacolo è ricco di spunti come i due moschettoni legati che Jim tiene in mano, il sogno di Mike di elevarsi dalle piccolezze umane sopra al monte Everest o l’impassibilità del mondo che scorre anche davanti ai drammi. Questi dettagli possono essere colti e interpretati in maniera diversa permettendo di cogliere in un tema così universale la sua sfumatura personale. Dopo la lettura della lettera Mike inviterà l’amico a ritrovare la forza per tornare a vedere il mondo nel suo meraviglioso splendore; in concomitanza a questa lettura le due sedie vengono ricomposte a sottolineare la chiusura della narrazione, ma anche la ricomposizione di un animo che, se pur trova la forza di guardare oltre, in sé porta sempre il suo sofferente equilibrio. Un Alt(r)o Everest racconta di una scalata intrapresa da due persone che si vogliono bene, della perdita di una di esse, la caduta in un crepaccio e della sua difficile risalita e in questa narrazione chi assiste non può che riconoscersi nella sua universalità.
Visto al teatro Ringhiera di Milano, sabato 8 aprile.