RUMOR(S)CENA – ARTISTI TEATRALI – TEATRO AL TEMPO DELLA CRISI – Il viola, ottenuto dalla mescolanza del rosso con il blu, è il colore della congiunzione tra il corpo, il terrestre e l’impulso del primo, con lo spirito, il celestiale e la quiete del secondo. Essendo un colore “tra l’umano e il divino, l’unione di due nature” (Jung, 1980). Eppure questo colore è bandito dal teatro. Non tutti ne conoscono il motivo. Il viola è il colore dei paramenti sacri usati durante la Quaresima.
Nel medioevo venivano vietati, proprio in quel periodo, tutti i tipi di rappresentazioni teatrali e di spettacoli pubblici che si tenevano per le vie o le piazze delle città e i preti indossavano abiti esclusivamente viola mentre alle finestre si stendevano dei drappi dello stesso colore. Il color viola simboleggiava un tempo di raccolta e penitenza (ancor oggi, per chi va a messa noterà che i preti nel periodo quaresimale indossano tonache di color viola). Quindi in queste giornate quaresimali tutti coloro che lavoravano in teatro o per il teatro erano costretti a un riposo forzato con conseguente riduzione dei guadagni. Questo comportava gravi disagi economici alle loro famiglie. Anche se oggi questa usanza è decaduta, la superstizione è rimasta e pochi artisti si avventurerebbero sul palco teatrale vestiti di viola. Proprio nel periodo di quaresima dell’anno 2020, pura coincidenza, ecco che i teatri devono interrompere la propria attività, a causa di una dilagante e pericolosa epidemia mondiale. È stato necessario farlo. «Dove sta andando il teatro? Che fine farà? Finirà? Cambierà? E gli attori? E gli spettatori? Cosa faranno? In quale altra dimensione saranno? E gli operatori stessi del settore?».
All’inizio della quarantena ci siamo trovati sommersi da queste domande e altre simili che hanno attanagliato le nostre menti in maniera quasi bulimica, fastidiosa, ossessiva senza lasciare spazio al pensiero di fronte a quello che è il crollo di un’era, alla sensazione del vuoto comportato da macerie ancora pericolanti di un passato da riscoprire, è certo e da osservare in totale meditazione per capire come andare avanti, perché l’unica certezza che si ha, per adesso, è che un periodo è finito, per tutti. Un arresto senza colpevoli. Una lunga pausa che non conosce ancora fine. Un periodo che ci ha riportato a un disordine da dover gestire. In case (per chi le ha) troppo piene di ricordi, di biglietti staccati, di abiti pesanti poggiati su divani. Di rumore assordante su palcoscenici vuoti. Parlare per cosa, parlare al posto di chi? E arrogarsi la presunzione di aver soluzioni uniche? Non è forse il momento dell’ascolto? Della condivisione di questa “sospensione” , di accettare l’urlo disperato di chi non sa come gestire il proprio vuoto o di chi lo accarezza e cerca di riempirlo nella calma mista a rassegnazione più totale? Non sarebbe l’ora per chi ha sempre scritto di abbassare il dito, sedersi e comunicare? Forse cambieranno i linguaggi in prospettiva di un cambiamento di vita già manifesto in questi giorni, forse non cambierà niente. Di sicuro non si può parlare dell’ignoto, del domani. Del presente, però, sì. Dell’importanza di stare nel presente. In un “hic et nunc” nuovo che ci vede vulnerabili ogni giorno, attivi, energici e poi passivi, tristi, malinconici. Non eravamo preparati, ci stiamo adattando, dateci tempo! Datevi tempo!
Prendete il tempo come dei grandi poeti che vigilano e ascoltano per testimoniare quello che accade, o non accade, dentro e fuori. Come fece, per esempio, Montale, che nel 1925 dichiarò il proprio “male di vivere” come uno strumento di comprensione e di espressione; dietro alla poesia c’era la vita, quella vissuta in mezzo agli altri e quella interiore e quando il poeta scrisse: ”Spesso il male di vivere ho incontrato” e dichiarò solennemente di poter dire soltanto “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo“, invitava a fissare con coraggio il “male di vivere”, senza smettere di sfidarlo. Non possiamo smettere di sfidare anche questo male di vivere che desta noia, mette per forza a nudo in una solitudine “non richiesta”. Un malessere comportato dalla mancanza stessa di una teatro “artaudiano”. Artaud, infatti, nel 1933, sottolinea che cosa sia teatro: il rapporto necessario tra attore e spettatore “Il teatro deve avere un pubblico capace di darci un minimo necessario di fiducia e di credito, di vincolarsi con noi proprio perché a noi è impossibile fare a meno del pubblico, parte integrante del nostro tentativo”.
Parole decise e che fanno un po’ male, in questo periodo in cui non può esserci questo rapporto “erotico”, morboso, fondamentale cha ha procurato, fino a un mese fa, una crescita costante in questa dialettica. E allora c’è chi cerca di continuare a fare teatro in altra modalità, che poi tanto “altra” non è in parte ma già c’era a latere” dicono gli attori/autori Daniele Timpano ed Elvira Frosini; parliamo di quello fatto in streaming, adattandolo a un’altra tipologia di comunicazione, eliminando un elemento sopracitato: il rapporto tra attore e spettatore.
«È fondamentale stare nel presente, non puoi sottrarti, specie per noi artisti che lo riflettiamo. All’inizio è stato un momento un po’ destabilizzante, in cui non sapevamo come reagire; poi arriva l’accettazione, la consapevolezza e cominciamo a pensare e a comunicare con gli altri anche permettendo, a chi è lontano da noi, di fare una riflessione sulla stessa tematica offerta. E questo può essere anche l’idea di un allargamento di un pubblico, proprio perché il web ti consente di raggiungere molte più persone dello spettacolo fisico. Siamo coscienti che non potremo tornare subito dal vivo, in contatto con il pubblico. Per ora, però, può essere un mezzo».
«Il teatro manca, è certo, in questo periodo sospeso, in questo vuoto che si è venuto a registrare improvvisamente. Manca il contatto con il pubblico» dichiara l’attore e regista Ciro Masella «In questo momento di raccoglimento, però, da queste crepe sarebbe bello che noi ne uscissimo già da adesso, come fa l’antenna di una radio, in grado di sintonizzarci nuovamente sui cuori delle persone e di essere in grado, quanto meno, di fare come i recettori di una società che forse sarà nuova, forse no. Il mio impegno, nel presente, è continuare a costruirmi per il futuro».
L’ascolto di questo nuovo, che crea confusione ma anche ridefinisce ciò che ieri è stato, i contorni di ciò che ci hanno impressionato, sotto qualunque punto di vista- caratteriale, sociale, politico, personale di ciascun vissuto- vengono amplificati come una voce dentro a un teatro vuoto, il rimbombo dei suoni, che ritornano a effetto boomerang e che ci fanno pensare, inevitabilmente di più.
«In questo presente ripercorriamo il nostro passato, in sordina. Apriamo gli archivi, rivisitiamo gli spettacoli fino ad ora compiuti e ci chiediamo se effettivamente possano essere rivisitati. Studiamo altri metodi o se diversi ne emergeranno. Ascoltiamo gli artisti da varie parti del mondo, come vivono, soprattutto, in questo problema globale. Ci piace, in questo presente, il confronto anche con altri colleghi». Dichiarano Anna Dora Adorno e Nicola Pianzola fondatori della compagnia Instabili Vaganti. E per certi versi è quello che anche Matteo Lanfranchi con la sua compagnia Effetto Larsen sta compiendo, addirittura organizzando on line, dei progetti di arte partecipata sui processi decisionali all’interno delle comunità, riscuotendo notevole successo. «È possibile che nascano nuovi linguaggi, questo non è dato da escludersi».
Alberto Grilli insieme a il resto della compagnia Teatro dei mondi allo stesso modo non si fermano nel progettare ulteriori spettacoli con stesure drammaturgiche e, forse per loro, può essere più semplice immaginare nel presente un futuro quasi immediato visto che il loro è un teatro di strada, poiché realizzato negli spazi aperti urbani o comunque pubblici o di libero accesso. Allo stesso modo il Teatro dei Venti con il suo direttore artistico Stefano Té, afferma: «Come tutti non sono in teatro, non vedo gli attori, non faccio le prove. Ogni giorno, però, lavoro per cercare di trovare delle soluzioni. Immagino un ruolo. Del teatro a partire dal territorio in cui siamo. Le restrizioni ci portano delle riflessioni e queste, per assurdo potranno essere un valore aggiunto nel curare un distanziamento sociale, ora obbligatorio e comprensibile, ma poi, da superare. Non voglio soffermarmi al teatro come ultimo luogo che aprirà e forse il fatto che non ci sarà più il teatro di prima può essere un bene».
C’è, dunque, chi ascolta questo presente come un momento fertile, paragonandolo, addirittura, a una residenza come sostiene l’attrice Antonella Questa: «Sono in salute, e questa è la cosa più importante. Certo, mi manca non poter lavorare con le persone, ma ho un testo da rifinire e mi piace pensare anche a come potrà essere il teatro dopo, a come lo faremo e dove».
Poi c’è chi si sente in arresto forzato, come ci tiene a sottolineare il regista Dante Antonelli, dichiarando che «il tempo per raccogliersi, prima, era scelto, calcolato lontano da affetti o da una vita di consumo, a volte frenetica. Potevamo essere noi a decidere quando isolarci. Adesso no. Siamo obbligati, costretti, lontani e non è sempre il giorno della creazione. Sarebbe antitetico». E alla domanda Come avverte la mancanza del teatro? risponde: «Come una realtà. Il teatro è oggettivamente chiuso, voi non potete andarci noi non possiamo farlo. Attendo l’alba, il poter dire ai miei attori che ci vedremo il giorno x e faremo insieme una scaletta. Ci potrebbe essere, dopo, un desiderio fortissimo di partecipare agli eventi che noi già da anni pensiamo, immaginiamo, creiamo e quindi è il pubblico che sceglie proprio noi. E allora, saremo pronti a parlare?».
«L’odore del palco mi manca. Posso scrivere un testo, posso immaginarlo, ma sempre secondo canoni che appartengono a un passato che ho dovuto lasciare. Mi sento depauperato da quello che mi nutre per lavorare e l’unica cosa che posso fare è viaggiare con la testa», afferma l’attore Bernardo Casertano.
Roberto Latini sostiene che «abbiamo smesso da tempo, fin prima della quarantena, di decidere in una collettività mai costruita. È un tempo in cui l’alterazione è totale e non è forse il caso di incanalare questo periodo nella creatività. È l’occasione per mettere un punto o forse due. Io spero soltanto di essere presto pubblico prima di tornare ad essere attore. Per andare avanti dovremmo tornare a prima di tutto questo, magari tornare al repertorio, tornare a una parte precedente a questo e poi pensare a un nuovo. Il teatro è ascolto e relazione. L’attore senza lo spettatore non è reazione. Ecco perché voglio essere prima spettatore: voglio la reazione».
Sulla stessa scia di Latini anche il regista Umbro, Michelangelo Bellani che aggiunge: «io voglio andare in un luogo che poi può utilizzare qualsiasi tipo di linguaggio. Uscire di casa per andare a teatro è un’azione mossa da una necessità e anche questa manca. Il teatro è l’arte dell’imprevisto e senza questo qualcosa mi manca in questo presente. Scrivo ma non è come prima. Non ho molti stimoli».
In questa fotografia di alcune personalità del teatro contemporaneo ascoltate, emergono diversi modi di affrontare il presente in un’unica mancanza, che è necessità, bisogno. Dunque, perché dire ancora cosa sia giusto o sbagliato nei termini del coraggio di dire o non dire, del fare o non fare? Il silenzio è certo una soluzione. Ma un silenzio costruttivo, di collaborazione, o di isolamento. Ci dimentichiamo, stavolta, che gli attori, i registi, i tecnici, prima di tutto sono essere umani vulnerabili e sensibili come tutti ai cambiamenti e come tali andrebbero rispettati.
Su, poi, quello che sarà il nuovo linguaggio dopo questa pandemia noi non lo possiamo dire, ma possiamo farlo nel presente appunto. Che cosa è successo nel passato in epoca di gravi crisi? Nel 1929, per esempio, si registrò La Grande depressione, detta anche Crisi del 1929, Grande crisi o Crollo di Wall Street. Eppure in Italia, proprio in quell’anno fu annunciato L’anello di Teodosio di Luigi Chiarelli, il primo radiodramma. In ritardo di cinque anni rispetto alla produzione inglese, che nel 1924 aveva inaugurato la nascita del nuovo stile con Danger di Richard Hughes, in Italia il radiodramma rimarrà per decenni un’ancella del teatro e della narrativa. Un mezzo, fino ad allora considerato eminentemente informativo e , diventa anche di divulgazione culturale tanto che nello stesso periodo si svilupparono i primi “manuali” di “scrittura per radio”; lo stesso manifesto di Enzo Ferrieri, nell’individuare le peculiarità della radio, suggerisce alcuni precetti per la buona scrittura soffermandosi sull’importanza della voce e sul concetto di “sintesi” e di “riduzione all’essenzialità” del dramma per radio.
Ancora: tra il 2007 e 2008 si registra la Grande recessione, una grave crisi economica mondiale scoppiata negli Stati Uniti d’America e estesasi, poi, nel resto del mondo. In Argentina il teatro si è subito chiesto cosa potesse fare e ecco che a Buenos Aires gli artisti scendono in strada, si riuniscono e fanno teatro all’aperto o nelle case al fine di creare una condivisione emotiva. In Italia si soffre la crisi perché dipendente dai finanziamenti pubblici. Dunque, come prima conseguenza, alcuni teatri chiudono. Poi, però, si avverte la necessità di creare nuove compagnie in base a nuovi linguaggi più improntati su testi arcaici, ma pur sempre attuali, come quelli greci, per esempio che possano fare da specchio alla società nuova, una necessità di riattivare l’intero percorso del secolo scorso, partendo dalle sue origini e presupposti culturali. Questo per dire che in un presente, forse, è necessario coltivare la memoria di ciò che ci ha preceduto e che, dunque, ci ha ridonato speranza nella ri-creazione.
«Noi selezioniamo ciò da cui ci dichiariamo determinati, noi ci presentiamo come i continuatori di coloro che abbiamo reso nostri predecessori». (Pouillon, 1975) Cosa sopravvive della memoria di un popolo, quali le singole tradizioni culturali tanto da riconoscerne l’identità in un’azione, in un canto, in un colore? La memoria stessa nella ripetizione, all’interno di un rito che abbia la funzione di reincarnare quel mondo, costruendone le funzionalità semantiche per scoprire l’ordine sociale o la riproduzione dello stesso. Per questo, dunque, si fa teatro: non solo perché si ha qualcosa da dire, ma anche perché si ha qualcosa da ricordare, da rievocare in una eco di un tempo che passa. È poi necessario che la rievocazione di questo avvenga sempre nello stesso luogo? Adesso non lo sappiamo. Adesso è il momento di un ascolto collettivo per una costruzione in un periodo che non deve accusare penitenza né indossare alcun tipo di colore. Perché è un presente da colorare.