RUMOR(S)CENA – Per la casa editrice Titivillus è stato pubblicato nel 2019 il saggio “Il Teatro è un giardino incantato dove non si muore mai. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati” a cura di Valentina Valentini. La scelta del titolo è rintracciabile nel capitolo “Il Teatro di Franco Scaldati, atto unico di In-Canto e di Misericordia”, firmato da Cosimo Scordato dove spiega da quali suggestioni si è partiti: il giardino come luogo fisico dove sono state collocate alcune delle opere di Scaldati, il giardino inteso come paradiso perduto per via del peccato originale dell’uomo ma che tende a ricostituire come terra/giardino e legarlo al rapporto tra le creature terrene e Dio, infine l’ultima, quella che intende concepire il teatro come strumento capace di riprodurre quanto nella vita viene custodito e tramandarlo sfidando la morte e pensato, al contrario, come un giardino della vita e l’azione teatrale si faccia carico di alimentarla.
Un’opera preziosa e indispensabile per far conoscere l’opera dell’attore, regista e drammaturgo siciliano scomparso nel 2013, che riunisce in modo organico e completo una raccolta di contributi capaci di analizzare da diversi punti vista, angolazioni prospettiche, la produzione di Scaldati: il mondo poetico di Franco Scaldati, l’aspetto teologico di Don Cosimo Scordato, con il quale lo scrittore condivise il suo lavoro all’Albergheria; testi che contribuiscono a inscrivere l’opera di questo autore insulare in un circuito di rapporti con la drammaturgia internazionale e nazionale. La relazione con Luigi Pirandello con il contributo di Valeria Merola, con Pier Paolo Pasolini analizzato da Stefano Casi, con Peter Handke e Heiner Müller analizzato da Valentina Valentini. Il volume comprende anche i saggi di Stefania Rimini, Andrea Vecchia, Marco Palladini, Matteo Martelli «che tracciano delle ipotesi di ricerca sulla centralità del sogno, sul “il mistero creaturale delle figure femminili”, sulle figure dell’ombra come doppio, liminalità fra reale e fantasmatico».
Contributi anche da parte degli artisti/attori che hanno collaborato con Franco Scaldati: Melino Imparato che lo ha affiancato sin dagli esordi; Antonella di Salvo che ha condiviso un tragitto, la creazione del Laboratorio Femmine dell’Ombra; Marion D’Amburgo per la messa inscena di un singolo spettacolo, Pupa Regina, opere di fango. Viviana Raciti ha curato una approfondita analisi dell’intera carriera di Scaldati con la consultazione dell’archivio privato delle opere dello scrittore, ora acquisito dall’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione Cini di Venezia, per volere dei figli Giuseppe e Gabriele e con la collaborazione della Compagnia Franco Scaldati.
L’Archivio di Franco Scaldati su rumor(s)cena
L’Archivio Franco Scaldati rappresenta uno specchio prezioso dell’attività del celebre drammaturgo siciliano, le cui opere restano, a oggi, per la maggior parte inedite. Organizzato in circa sessanta faldoni di materiale documentale, l’archivio include copioni, note e scritti autografi, rassegna stampa, corrispondenza, documenti vari e locandine. La sezione più consistente custodisce documenti relativi alle opere per il teatro di cui Scaldati è stato autore. Per ciascun titolo, l’archivio conserva diverse versioni di materiale edito e inedito, quadri sciolti, opere complete e collage creati a partire da testi preesistenti. Ciascun titolo è documentato nell’evoluzione drammaturgica che ha avuto nel corso dell’intera carriera di Scaldati, i cui testi sono frutto di un lungo e costante lavoro di revisione, riscrittura e assemblaggio, variazioni di minore entità o decisive rivoluzioni.
Nato a Montelepre, un paesino alle porte di Palermo, Scaldati si trasferisce ben presto in città con la famiglia; qui intraprende gli studi, che lascia prima di conseguire la licenza elementare. A soli dodici anni inizia a lavorare in una sartoria frequentata da attori teatrali; questa sua professione sarà all’origine del soprannome “il Sarto”, e si rivelerà fondamentale per lo sviluppo del suo interesse per il teatro e per la professione dell’attore. Nel 1964 entra nella compagnia di Nino Drago e debutta come co-protagonista in Ricorda con rabbia di John Osborne; in questo periodo e per quattro anni, sul palcoscenico del Teatro Bunker, rappresenta testi di Samuel Beckett, Eduardo De Filippo, Dario Fo e Luigi Pirandello, ed entra in contatto con alcuni degli interpreti che gli resteranno accanto a lungo: Gaspare Cucinella, Melino Imparato, Ninni Truden, cui poi si aggiungono successivamente, tra gli altri, Gigi Burruano, Fabio Cangialosi, Toti Giambertone, i fratelli La Bruna, Rory Quattrocchi, i fratelli Spicuzza, Tobia Vaccaro.
“Il Teatro è un giardino incantato dove non si muore mai. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati” inizia con una premessa necessaria: «La bibliografia dello scrittore Franco Scaldati non è vasta, sia per quanto riguarda la pubblicazione della sua produzione letteraria, ancora per la maggior parte inedita e con scarse possibilità che questa condizione possa modificarsi, sia per quanto riguarda la letteratura critica». Ecco che allora l’Archivio donato dai figli di Scaldati alla Fondazione Cini assume un’importanza rilevante per le attività di studio e ricerca, con il fine di poter studiare e analizzare a fondo tutta l’opera di quello che è considerato, a ragione, uno dei maggiori drammaturghi italiani del secondo Novecento. «Le opere di Scaldati soffrono di una sorta di impermeabilità che non le rende attraenti agli studiosi – spiega Valentina Valentini nella premessa del saggio critico – siano essi di teatro, di letteratura, di poesia. Nel caso di questo artista il lavoro di attore e il portare in scena i propri testi – ovvero il suo essere stato un autore – autore di teatro – non ha contributo, se non in momenti particolari e di breve durata, a far conoscere lo scrittore a livello nazionale ed internazionale».
La maggior parte di testi di Scaldati (trentasette) sono inediti originali) a fronte di solo tredici opere pubblicate e dodici traduzioni di testi noti.
Nel 1974, insieme allo stesso Nino Drago, fonda il Piccolo Teatro di Palermo. In questo contesto scrive, mette in scena e recita alcuni dei suoi testi di esordio prodotti dalla Cooperativa I Draghi 74, tra cui Attore con la “o” chiusa (1974, rappresentato presso il cabaret dei Travaglini di Salvo Licata e Antonio Marsala), Il pozzo dei pazzi (1974), In forma di rosa (1976). Nel 1975, all’indomani della prima rappresentazione di Il pozzo dei pazzi, fonda la storica Compagnia del Sarto, che resta attiva tra gli anni Settanta e Ottanta; nel 1976 apre lo spazio La locanda degli Elfi, dove debutta lo spettacolo Cuniesci arriniesci (1977), prima stesura di quello che diverrà Il cavaliere Sole. Dell’anno successivo è Lucio, evoluzione di In forma di rosa, presentato con la Cooperativa teatrale Gruppo 5. Sempre nel 1978, lo spettacolo Manu Mancusa segna la fine della collaborazione tra Scaldati e Nino Drago: il Teatro Biondo si accaparra la prima assoluta offrendo una somma ingente e, da questo momento, Scaldati inizia a lavorarvi in modo altalenante, soprattutto nel ruolo di attore.
Di particolare interesse il capitolo “Per una topografia della caverna poetica: le opere di Franco Scaldati attraverso il suo percorso storico-artistico”, curato da Viviana Raciti che analizza la sua opera riuscendo ad inquadrare l’intera produzione esaminandola all’interno del contesto storico in cui si è svolta. La ricercatrice ricorda che Scaldati veniva definito da Franco Quadri come il “poeta delle caverne” (…) «è stato il poeta dei dimenticati, ma anche di coloro che non trovano più necessità di confrontarsi con quel mondo che li aveva messi di lato; celebrato come cantore della luna (amante volubile o depositaria mitica), riscopritore di un rapporto con la natura panica nella quale non esistono giusti o malvagi ma esseri complessi e mai giudicabili; testimone dei contrasti di una città-anima, correlativo oggettivo di un intero universo in cui concorrevano tanto le case distrutte, la violenza dell’uomo mafioso, quanto la sontuosità dei teatri storici o la benevolenza di Santa Rosalia (…)»
Seguendo la vita di Scaldati, le prime esperienze artistiche unitamente al suo lavoro iniziale (Scaldati di professione era sarto), l’incontro con gruppi palermitani dediti al teatro, vicini all’ambiente universitario e associazionismo con caratteristiche di militanza politica. Un terreno fertile e molto composito in cui l’artista inizia a sperimentare le sue straordinarie capacità visionarie, da prima come attore per poi dedicandosi anche alla scrittura in una Palermo frequentata da registi come Orazio Costa e Franco Parenti, la nascita di piccoli teatri indipendenti. In una città così vivace culturalmente, Scaldati incontra altri attori come Melino Imparato con il quale nascerà un lungo sodalizio artistico.
Il suo primo lavoro nella sartoria di famiglia ispira Scaldati a fondare negli anni Settanta la Compagnia del Sarto, un collettivo teatrale in cui rivela la sua concezione drammaturgica svincolata dalle regole e dalle convenzioni del teatro ufficiale. Sono gli anni dei suoi primi testi teatrali dove nel saggio di Viviana Raciti viene analizzata una dettagliata mappa dell’archivio dell’autore, in cui tocca un aspetto fondamentale di tutta la produzione dell’attore-drammaturgo che fa chiarezza su come Scaldati si era avvicinato al teatro-mondo: «(…) nonostante quello che viene definito come uno distacco dalle questioni politico sociali, in verità, l’approccio alla società attraverso il teatro si profila sempre di più con un fare puramente politico, ovvero rivolto a un territorio con cui mettersi in dialogo, non soltanto tematicamente ma anche praticamente». La fama di Franco Scaldati si rivela al grande pubblico nazionale grazie al Premio TTVV di Riccione con l’adattamento video tratto dal suo testo teatrale Assassina nel 1986 ma anche a Franco Quadri che vede in lui una rivelazione per il teatro italiano.
Recensione di Francesca Romano Lino pubblicata su rumor(s)cena il 18 marzo 2017
In Assassina il perturbante colpisce i due protagonisti fino all’epilogo, dopo vari tentativi di riavvicinamento, segnando la parola fine con la morte di entrambi. La morte aleggia su tutta la storia ma la levità della scrittura unita alla regia e interpretazione viene sfumata da una poetica raffinata e perfino malinconica a tratti. Enzo Vetrano (la “vecchia”) e Stefano Randisi (“l’omino”) , il cui talento li rende capaci di far provare anche commozione oltre che le dovute emozioni a cui il teatro non deve e non può rinunciare. Due straordinari protagonisti di uno degli spettacoli più riusciti della presente stagione teatrale.
Il saggio curato da Valentina Valentini composto da undici capitoli tra cui figurano tre contributi di chi ha lavorato insieme a Scaldati: Marion d’Amburgo, Melino Imparato e Antonella Di Salvo. L’analisi condotta dai ricercatori e studiosi come Valeria Merola, Stefano Casi, Carlo Serafini, si basa sulla comparazione con altri autori che fanno parte della letteratura e drammaturgia contemporanea: Pasolini, Pirandello, Testori, Muller, Handke. Scrive Valentina Valentini: «Il teatro per Scaldati è, infatti, una finzione alla quale bisogna credere, insieme ai sogni e ai cunti, che sono le storie che si raccontano quando ancora la televisione non era dispensatrice di solitudini e intrattenimento per tutti da Nord a Sud». La carriera di Franco Scaldati si è svolta principalmente a Palermo, città che non ha saputo riconoscere e valorizzare il talento del suo concittadino né quando era in vita e nemmeno dopo la sua scomparsa.
Nel capitolo “L’Ombra, la liminalità e lo spazio risonante. Distanze di prossimità in Totò e Vicè di Franco Scaldati” Matteo Martelli parla delle ombre nel teatro del drammaturgo siciliano: «Ombre di figure, di “personaggi-corpi”, di “personaggi-voci”¹, ombre di culture, di ambienti, di spazi, ombre di luce (di luna, lanterna, bagliore). Prese nel loro insieme, queste ombre richiamano qualcosa di doppio, o meglio di duplice, poiché ogni elemento che la produce, di cui è proiezione, che ne delinea la forma, la presenza, l’intensità. Si tratterebbe allora di un elemento intermedio, residuo e presenza insieme, all’interno del quale o nel cui percorso si gioca un dialogo di prossimità, ad un tempo reale e fantasmatico». Le ombre che si ritrovano in Totò e Vicè rese con ammirevole fedeltà d’intenti nei confronti dell’autore, da due interpreti straordinari della drammaturgia di Scaldati: Enzo Vetrano e Stefano Randisi, protagonisti di rara bravura che appaiono come eredi della tradizione dell’artista siciliano (loro stessi nativi in Sicilia e per questo nel loro dna è presente ancor più la poetica di Scaldati), ma anche per una misteriosa alchimia appaiono come destinatari per volontà stessa di chi scrisse il testo (pubblicato nel 2003 A. Di Salvo e V. Valentini (a cura di), Totò e Vicè, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore). Enzo Vetrano e Stefano Randisi sono anche protagonisti della coppia di Totò e Vicé erranti nelle vie di Palermo in un film di Marco Battaglia e Umberto De Paola. Ma c’è anche un Totò e Vicè con Enzo Vetrano e Stefano Randisi, interpretato una notte di luna piena con il buio rischiarato da candele e lampadine appese ad un filo, sul patio di una pieve romana nelle campagne di Radicondoli. Non si poteva immaginare un’ambientazione migliore per rendere omaggio a Franco Scaldati.
Un estratto della recensione pubblicata su rumor(s)cena del 17 agosto 2012
Totò e Vicè: esterno notte. Luna piena ed emozioni palpabili nel veder uscire da un cigolante cancello di un cimitero, accanto ad una pieve, due uomini infagottati e claudicanti. Sono Enzo Vetrano e Stefano Randisi, sublimi cantori con il loro dimesso cappotto e le valigie di cartone. In cerca delle loro anime smarrite ed errabonde. Fantasmi illuminati da fioche lampadine e e lumini come ve ne sono in tutti i camposanti. Bellezza allo stato puro in cui ti immergi e ti lasci trasportare in un viaggio esistenziale e surreale. Teatro fatto di parole quasi impercettibili, colorate dalla cadenza siciliana. Gesti di antica sapienza teatrale, come solo due artisti di tale caratura possono permettersi. Si rincorrono e giocano come dei buontemponi a cui la vita ha riservato il piacere di sentirsi eternamente fanciulli. Recitano le pagine scritte da Franco Scaldati, drammaturgo siciliano e lui stesso attore, capace di raccontare come pochi il mistero della vita. Come un alito di vento che soffia per un istante e fugge via. Inutile rincorrerlo. Inutile rincorrerli: Totò e Vicè sono giù lontani e se la ridono di gusto. Siamo a Radicondoli, sede del festival Geografie dell’anima. (Roberto Rinaldi)
La recensione di Federica Sustersic pubblicata su rumor(s)cena il 2 agosto 2012
Scrive ancora Matteo Martelli in “L’Ombra, la liminalità e lo spazio risonante. Distanze di prossimità in Totò e Vicè di Franco Scaldati”: «Ciò che emerge dalle parole di Scaldati è che questa zona dove tutto viene fagocitato è anzitutto un luogo culturale, o meglio è una maniera di pensare un luogo di formazione di cultura, nonché di vita. Stare sull’ombra, non soltanto nell’ombra, identifica dunque un posizionamento: uno stato di trasformazione, di mutamento, che può incarnarsi tanto in degli spazi quanto in delle figure. Tra queste ultime, Totò e Vicè sono della materia luminosa dell’ombra. Nelle riscritture dei diversi testi che hanno dato vita a queste presenze, pubblicati da Rubettino nel 2003, Totò e Vicè incarnano questa esistenza incerta e impalpabile che trascende l’esperienza diurna. Esse sono uno dei modi del teatro di Scaldati di interrogare e far parlare questo stato di materia indefinito, di trapasso e generazione, ma anche uno dei modi per affermare nel gioco comico-lirico di questo testo che “siamo fatti della stessa materi delle ombre”, in una continua interrogazione sul limite dell’esistenza, o di un’infra-esistenza, dove anche Ombra, come Totò e Vicè, è figura in scena, anzi una pluralità di figure che appaiono e scompaiono attraverso la scena :»
Ombra
Chi è morto è vivo e chi è vivo è
morto; e c’è chi non è né vivo
né morto…
(da Totò e Vicè)
Matteo Martelli nell’affrontare il testo di Scaldati analizza le battute tra Vicé e Totò per far emergere uno dei tratti costitutivi della sua scrittura drammaturgica: «L’ombra che parla, l’ombra che ha voce, dove ognuno è il sogno di un altro sogno e ogni sogno all’altro sogno sogna. Già in questo richiamo sarebbe possibile leggere uno dei tratti che costituiscono Totò e Vicè, poiché, “oltre a funzionare come dispositivo di situazioni comiche, portano la dimensione del doppio: “ognuno è nell’altro specchio e ombra”».
Tra il 1993 e il 1995 scrive e rielabora continuamente Totò e Vicé, uno dei suoi spettacoli più noti e rappresentati, anche con varianti successivamente aggiunte dallo stesso autore; i due personaggi erano già comparsi circa dieci anni addietro in Indovina ventura (1983-1999), ma con il testo che porta il loro nome trovano un’autonomia drammaturgica e scenica. A metà degli anni Novanta inizia a lavorare ad altre opere emblematiche della sua produzione: Santa e Rosalia (1996, che troverà diverse versioni anche nel corso dei Duemila) e La locanda invisibile (1997, Premio Speciale Ubu).
Il volume edito da Titivillus rende giustizia all’enorme lascito che Franco Scaldati ci ha fatto pervenire nonostante non sia stato giustamente valorizzato come meriterebbe, se si pensa al suo ruolo che ha avuto nella storia della drammaturgia contemporanea. Un autore mai soddisfatto della su opera, capace di rielaborare e rivedere i suoi testi, producendo versioni differenti, modificandone anche l’impianto drammaturgico e il titolo. Un’inquietudine prolifica per la vastità di scritti che ci sono pervenuti e per la maggior parte mai rappresentati. Le edizioni di Ubulibri e Rubettino sono esaurite e il teatro di Scaldati viene mantenuto vivo da artisti quali Enzo Vetrano e Stefano Randisi, la regista Livia Goinfrida che ha messo in scena di recente al Teatro Biondo di Palermo, “Inedito Scaldati”.
La recensione di Giulio Baffi pubblicata su rumor(s)cena il 6 aprile 2022
Livia Gionfrida firma la regia di Pinocchio di Franco Scaldati messo in scena per il Teatro Stabile di Catania
Questo Pinocchio abita nel mondo di Franco Scaldati, in una Sicilia che si fa metafora esistenziale in cui ogni pulsione umana, ogni inclinazione è portata al parossismo. Il protagonista è un ragazzo siciliano che non ha ancora granché esperienza della vita, che è nato e cresciuto in un ambiente violento e apprende così un linguaggio fisico fatto di botte e sputi, soprusi e povertà, di rapporti brutali in cui vince sempre il più forte e il più furbo.
L’intervista alla regista pubblicata su rumor(s)cena il 13 luglio 2021
Quali possono essere le chiavi di lettura per far capire allo spettatore la drammaturgia di Franco Scaldati che rappresenta uno dei maestri più rappresentativi della scena italiana?
L’opera che ci ha lasciato il Maestro è molto vasta e, pur avendo un carattere riconoscibile, essa contiene al suo interno tanti diversi sapori e colori. Ci sono opere fortemente poetiche, quasi sospese, ed altre in cui fa da padrona la violenza più brutale, ci sono opere mutuate da altri autori, Shakespeare tra tutti, ed altre che si ispirano alla solitudine beckettiana per poi allontanarsene, spinte da un vento lunare carico di speranza e redenzione. Questo autore ci ha lasciato molte chiavi di lettura per la sua opera e il mio percorso di studio intorno alla sua scrittura si è fatto sin dalle prime battute avventura teatrale vera e propria, un percorso di ricerca faticoso ma pieno di scoperte illuminanti.
L’esplorazione del “teatro-mondo” di Franco Scaldati verte anche sui contributi di Valeria Merola che affronta la relazione tra il drammaturgo e Luigi Pirandello che lei stessa spiega come “azzardato” per via che « (…) i due autori non presentano punti di contatto molto evidenti. Per quello che ho potuto constatare, il richiamo diretto alle opere di Pirandello non è quasi mai presente e talvolta, quando compare, è più per negare una dipendenza che per confermare una vicinanza, anche relativa. Né si può ascrivere questa distanza alla dimensione fortemente letteraria della drammaturgia pirandelliana, perché Scaldati ammette invece una relazione molto stretta con la scrittura di Giovanni Testori che definisce il suo maestro, e di Pier Paolo Pasolini, che considera punto di riferimento imprescindibile». Tra Scaldati e Pasolini è Stefano Casi a scriverne nel capitolo: “ Pasolini e Scaldati: prove di dialogo” dove mette al centro della sua analisi il comune denominatore che gli unisce: « (…) il tema del sottoproletariato.
O forse dovrei dire del suo mito, perché in entrambi gli autori il sottoproletariato si sottrae al realismo o al neorealismo per affermarsi come oggetto di una mitopoiesi contemporanea, che utilizza toni arcaici per esprimere necessità attuali». Se però per Pasolini il sottoproletariato rappresenta un universo da conoscere e amare perché «(…) è innamorato, ne è attratto perché è altro da sé, e come atto d’amore lo rappresenta, con passione e con lucidità, perché tutti possono vedere e capire, e forse innamorarsi. Scaldati, al contrario, non è innamorato del sottoproletariato e non lo rappresenta: Scaldati sta dalla parte del sottoproletariato, di cui fa sentire una voce che forse neanche il sottoproletariato sa di avere, che è la voce di una poesia profondamente umana, nella quale si possono riconoscere tutti: non innamoramento, ma riconoscimento di sé nell’altro, rispecchiamento (…)»
Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai
Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati
a cura di Valentina Valentini
scritti di Stefano Casi, Marion d’Amburgo, Antonella Di Salvo, Matteo Martelli, Melino Imparato, Valeria Merola, Marco Palladini, Stefania Rimini, Andrea Scappa, Cosimo Scordato, Carlo Serafini, Viviana Raciti, Valentina Valentini, Andrea Vecchia
cura redazionale Margherita Dellantonio e Doralice Pezzola
supervisione redazionale a cura di Viviana Raciti