RUMOR(S)CENA – GENOVA – È assai dolente questo periodo intriso di lutti. Alcuni provengono dal passato, altri invadono il presente e raccontano l’esistenza di grandi artisti. È il sottofondo delle note al pianoforte di Ryuiki Sakamoto quello che stiamo ascoltando – compositore e musicista giapponese scomparso durante gli ultimi giorni di marzo – e che stride con la disturbante storia di David Foster Wallace, fatta di libri assai scomodi e farciti da un certo lasciapassare umorista. Scritti da un essere umano sofferente di depressione il quale circa 15 anni fa decise di porre fine alle proprie angosce, in autonomia, senza attendere l’ineluttabile: come tutti o quasi, come è stato per il grande musicista giapponese.
Assistendo allo spettacolo Brevi interviste con uomini schifosi, per la regia dell’argentino David Veronese, ed interpretato da Lino Musella e Paolo Mazzarelli, già noti al grande pubblico, andato in scena al Teatro Ivo Chiesa, Teatro Nazionale di Genova, cerchiamo di non far pesare troppo codeste informazioni, decidendo di non restare influenzati e di metterci comodi. Si fa per dire.
I temi trattati dallo scrittore americano, considerato tra i massimi esponenti della letteratura americana post-moderna, definito l’Emile Zola post millennio, insistono sulle difficoltà delle relazioni interpersonali, sul narcisismo, sull’anaffettività, sulle violenze psicologiche e non, agìte all’interno di una coppia, e via dicendo.
L’adattamento teatrale per mano del regista David Veronese, già sperimentato attraverso l’interpretazione di attori di varie nazionalità, porta alla luce otto racconti/monologhi tratti dall’omonima raccolta di David Foster Wallace. Essi vengono presentati con il loro titolo proiettato a chiare lettere su di uno schermo ed impersonati da Musella e Mazzarelli, i quali si alternano ora nella parte delle donne ora in quelle degli uomini, dando vita a coppie che “comunicano” attraverso parole e sguardi, piccole movenze, in un’alternanza di luce e buio, scandita da un campanello da portiere di notte, con sedute e alzate dalle sedie e atteggiamenti vicino o sopra i tavoli e le sedie disposti sul palco.
La mise en èspace è davvero ridotta ai minimi termini, veste di soli jeans e maglie scuri i protagonisti, e li libera delle scarpe. E di titolo in titolo ecco svolgersi la rassegna dei monologhi. Sebbene inizialmente alcune risate vengano strappate al pubblico in sala, più si andrà avanti nell’ora e poco più di performance, più l’umorismo si farà difficile, più sotto traccia e nervoso e più la risata sarà a denti stretti. Costretti ad ascoltare i punti di vista satirici, implacabili e stranianti di questa accozzaglia di esemplari dis-umani che blandiscono, circuiscono, manipolano, aggrediscono verbalmente, con sapiente falsa adulazione le loro interlocutrici donne. Le malcapitate, reagiscono, poco, ma reagiscono, anche se la logorrea è concessa solo al maschio: da qui i monologhi.
Abbiamo quindi Il Paternal che esordisce con “… Ti auguro di sapere di che cosa hai bisogno …”, quando lei accenna alla decisione di andarsene dalla coppia. A seguire L’Esca, agìta dal maschio con il braccio deformato da viscide squame, il quale seduce per mezzo della morbosa curiosità verso la propria menomazione asserendo “… Ne ho viste più io di un water …”. È la volta quindi del tipo molto attento agli atteggiamenti da gallina di alcuni esemplari femminili, dove la capacità sta nell’individuare, appunto, le donne-galline. Sostiene che è una selezione, nulla di violento, soltanto un giuoco di rinuncia (inconscia) del potere della donna in favore di quello dell’uomo. Giungiamo a La Partenza “… Se ti amassi anche solo invece che un po’ di meno forse potrei restare …!” e poi arriva L’Amante Perfetto: “… Ma vogliamo farla una distinzione tra gli amanti rozzI e sbrigativi versus gli amanti pseudo esperti, sensibili e accoglienti? Costoro non sono egoisti allo stesso modo e desiderano soltanto dominarti? …”. In “Tu devi chiudere il negozio” regna l’apoteosi dell’evidente manipolazione sotto fattezze maschili: un raro pezzo di maschilismo a tempo pieno. Il resto lo omettiamo, come si fa in fascia protetta. Nulla viene lasciato all’immaginazione quando il racconto si concentra su di una violenza fisica estrema.
L’umorismo, anche se nero, potrebbe essere l’unica forma o mezzo accettabile per un linguaggio ed un messaggio politicamente scorretto? Anche se risulta comunque fastidioso, perché operato a nocumento di esseri umani, perché il danno purtroppo esiste e lo spettatore sa di essere parte del problema. Anche se applaude. In fondo è soltanto uno spettacolo teatrale, tratto soltanto da un libro scritto da un uomo considerato soltanto un genio della letteratura.
Lino Musella, intervistato dietro le quinte dell’allestimento, ci fornisce una sua propria considerazione circa la pièce: “Questo è un lavoro che mette in scena un pensiero ed uno stimolo intellettuale che Wallace ci fornisce sull’essere umano e sulle responsabilità dell’uomo occidentale. Il degrado domina certa cultura con cui noi uomini dobbiamo fare i conti”. Ci permettiamo di aggiungere: anche noi Donne. Ma se, invece, dietro a tutto ciò vi fosse un cartello femminista? Una storia scritta da un uomo, dal punto di vista di un uomo, può implicare che l’autore sia perfettamente consapevole non solo della natura controversa dell’argomento, ma anche e soprattutto della problematica della narrazione?
Sceglie la scomodità sì, ma per un buon motivo, che è quello di far sentire lo spettatore e lettore a disagio, in conflitto, disturbato e vergognoso: come unica risposta di fronte a situazioni così invasive e senza volto e apparentemente intrattabili. A fine spettacolo, quando le luci in sala si sono riaccese, la signora che è seduta accanto a noi insieme al marito (una coppia più che adulta ed abituata alla cultura, vien da pensare) esordisce sgomenta: “Ma perché tutti gli uomini hanno applaudito con così tanto fervore?!”. Il dibattito è aperto.
Visto il 31 marzo – Teatro Ivo Chiesa, Genova