I titoli dicono quasi tutto, soprattutto quelli degli spettacoli che ripudiano misticismi, macchina del fumo e quarta parete. Sono un prologo ristretto: annunciano senza troppi scrupoli problema, dati, e risultato. Quel che rimane da fare allo spettatore, si intende, è osservare lo svolgimento.
Il titolo dello spettacolo andato in scena, in prima assoluta, al Teatro Storchi di Modena il 9 Maggio, è “Il Ratto d’Europa”. Sottotitolo: “Per una archeologia dei saperi comunitari”.
Posto che il termine archeologia individua la collezione di tracce e resti di qualcosa che non esiste più nella sua interezza o nella sua forma originaria, allo scopo di ricomporre l’oggetto latitante, fare “una archeologia dei saperi comunitari”, a conti fatti, significa rimettere insieme i pezzi di una identità comune fondata su un sapere condiviso della cui esistenza rimangono indizi, ma non prove regine. Vuol dire andare alla fonte dei luoghi comuni, ricostruirne il percorso di nascita e sedimentazione attraverso la messa in discussione di quello che si sa o si immagina di sapere senza ricordare quando come e se lo si è veramente imparato.
Impostando l’indagine a partire dal mito fondativo del continente, quello del Ratto d’Europa appunto, il gruppo di lavoro, guidato dal regista ideatore, animatore, e coordinatore del progetto, Claudio Longhi, si è dato quindi il compito di stimolare e raccogliere una serie di riflessioni sul senso di Europa come comunità, agendo all’interno di un’altra comunità: quella modenese. Per un anno intero, infatti, Longhi e i suoi “agenti” (Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Simone Tangolo, Antonio Tintis) hanno operato sul territorio ri-attivando il circuito della cultura teatrale, infiltrandosi organicamente in varie forme di raggruppamenti sociali, dalle scuole alle associazioni più diverse, allargando la ricerca a tutta la città attraverso progetti che hanno preceduto lo spettacolo come laboratori, concorsi di foto di viaggi, giochi urbani a tema, incontri culturali, partite di calcio, e persino un simil-flash mob. Spingendo da un lato il pedale del coinvolgimento ludico e dall’altro quello di uno studio approfondito nutrito da una sterminata bibliografia, è stata prodotta una drammaturgia collettiva i cui destinatari (gli spettatori) hanno finito per coincidere in larga parte con i mittenti (i cittadini autori). Un passaggio garantito dal filtro dell’arte e dunque dagli attori che hanno il merito, in questo genere di operazioni teatrali, di rimettere in circolo idee già esistenti o di indurne di nuove, e di rilanciarle con forza da un palcoscenico, laddove senza filtri sarebbero rimaste sotto pelle, inesplose, o semplicemente non individuate con chiarezza.
Quello che è venuto fuori da questo lungo lavoro è che la storia della comunità europea, sia che la si intenda in termini geografici e topografici sia che la si veda nella prospettiva economico politica dell’Ue, è una storia complicata, crepata da innumerevoli contraddizioni. Da buoni brechtiani, dunque, prestando molta attenzione a non cadere nelle trappole insidiose del cinico euroscetticismo, da un lato, o del suo esatto contrario, dall’altro, i nove agenti impegnati nell’impresa si sono confrontati con la contraddittorietà senza tentare di risanarla, senza aspirare a una pacificazione consolatoria, mirando piuttosto, a una estremizzazione dei contrasti. La parola d’ordine, insomma, non è ricucire, ma mostrare lo strappo, riportare a galla quelle contraddizioni insabbiate sotto il cliché, il luogo comune o il disinteresse più totale.
L’Ue aspira alla educazione del cittadino e finisce per occuparsi di tutela dei consumatori. Si parla di comunità europea, si istituiscono leggi comuni, si facilitano gli scambi internazionali e nello stesso tempo di costruisce, oggi, negli anni duemila, ad Atene, un muro di quattro metri lungo il confine con la Turchia per ridurre il flusso di immigrazione clandestina. Si stanziano fondi per garantire sostegno ai progetti meritevoli e le opportunità offerte dai bandi Ue affogano nella voragine della burocrazia; mentre nelle scuole si promuove lo studio delle lingue e la cultura del plurilinguismo, da qualche parte si fa fatica a comprendere l’altro. Da una parte si organizzano Grand Tour, viaggi di cultura e di piacere, da un’altra ci si affolla su barconi malconci per fuggire dalla propria terra.
Attraverso la felice intuizione di strutturare lo spettacolo in forma di tele-game stile “Giochi senza frontiere”, adattato per l’occasione in Ratto senza frontiere, il teatro Storchi si trasforma in un giocoso campo di battaglia dove nove rappresentati di altrettanti Paesi europei, perfettamente caratterizzati secondo i clichés più comuni, sono chiamati a fare squadra per superare una serie di prove necessarie a scongiurare una definitiva frantumazione dell’Europa.
Dopo una poco risolta scena introduttiva in cui un infaticabile Lino Guanciale, in arte Nanterre, francese charmant compiaciuto, ricostruisce il mito del Ratto d’Europa trasformando il toro Giove, rapitore della principessa Europa, in un ratto gigante (sull’omonimia tra ratto/rapimento e ratto/topo è giocato l’intero progetto), gli agenti di questa sgangherata squadra si svegliano da un torpore diffuso, animato da incubi comuni in perfetto formato postmoderno –blob video di documentari, telegiornali, scioperi, crisi greca, default – per raccogliere la grande sfida.
Scena platea e palchi vengono invasi da assi di legno che simulano strade e ponti europei, da sistemi di carrucole rudimentali attraverso cui viaggiano valigie di studenti in Erasmus e di cervelli in fuga, piccole pile di libri pronte ad essere scalate come collinette durante il Grand Tour settecentesco di giovani aristocratici, strade ferrate che ospitano i sogni di avventura dei ragazzi in Interrail e le speranze già nostalgiche degli emigranti in cerca di fortuna.
L’intero spettacolo è un susseguirsi di “trovate”, alcune delle quali veramente geniali, altre più stucchevoli, che accompagnano l’aspetto più schiettamente didattico dello spettacolo, coinvolgendo il pubblico in una spirale goliardica cercata e perfino efficace.
Mentre parole e immagini raccontano quanto il concetto di Europa sia cambiato fino a rendere i ghetti di un tempo mete turistiche di oggi, quanto l’idea di confine sia arbitraria, senza mai dimenticare di citare date e nomi, statistiche e numeri, il gruppo di attori, con grande resistenza (fisica), si produce in un vortice euforico in cui si costruiscono con materiali di fortuna, come reti da pallavolo o grosse casse nere, mura urbane, frontiere di Stato, la linea Maginot, il Muro di Berlino. Delle scarpe allineate, dipinte con pittura bianca sfacciatamente per finta, simulano una staccionata per raccontare il confine della proprietà privata. Del nastro bianco e rosso recinta improvvisamente la platea: diventiamo una comunità separata dagli altri, perché “i confini servono per distinguerci dagli altri”, ma anche per chiuderci in trappola, a quanto pare.
All’interno di una griglia drammaturgica che si poggia, fondamentalmente, sul livello ironico e della parodia, si inserisce un inserto lirico bellissimo, forse il segmento più risolto dell’intero spettacolo. Abbandonato, in via eccezionale, lo spirito goliardico, gli attori si lanciano, per una prova dedicata alle guerre, in una affannosa corsa all’accumulo.
Mentre la fisarmonica di Olimpia Greco stabilisce il colore emotivo del momento, il palcoscenico viene ingombrato progressivamente da cataste di giornali, in parte accumulati alla rinfusa in grossi carrelli da lavanderia, gettati lì come biancheria sporca dimenticata, e in parte portati dagli attori in uno spasmodico andirivieni. A presidiare la trincea di memorie sepolte edificata in scena, due donne: a loro, in quanto figure femminili e dunque depositarie, da sempre, del ricordo e della responsabilità di tenerlo vivo, è delegato il racconto, attraverso il compito di elencare almeno cinquanta guerre che abbiano dilaniato il territorio europeo. Tutto d’un fiato, forsennando straordinariamente la voce in un contrappunto vocale dell’azione di accumulo condotta dagli altri attori, Donatella Allegro e Diana Manea mettono in fila senz’ordine guerre persiane, crociate, strage degli ugonotti, Seconda guerra mondiale, Rivoluzione Inglese, Rivoluzione Francese, inciampando, in qualche momento, nella biografia di donne modenesi realmente esistenti che hanno conosciuto l’orrore da vicino. Le due attrici infilano date nomi e luoghi in elenchi lunghissimi, dettagliati, precisi, perché guerra e morte sono ferite di carne vera ancora aperte, che meritano riscatto da una memoria approssimativa sorella di una giustizia sommaria.
Chiusa il capitolo sulle guerre, tra esilaranti gare di scioglilingua in complicate lingue straniere gestite a forza di cartellini gialli, passando attraverso poco originali quiz su euro-miti in cui è scontata la richiesta dell’ “aiuto del pubblico”, consegne di pacchi con immancabile “telefonata del dottore”, tentativi di districarsi nei complicati bandi Ue attraverso una “drammatizzazione” dei vari punti da sciogliere condotta con l’aiuto del pubblico, si arriva alla preparazione di ricette anticrisi, condite da jingle modificati ad hoc e necessarie parodie dei programmi di cucina. L’idea degli “Euroamaretti non ci resta che piangere” risulta efficace, la ricetta dello “Spread all’italiana” è ormai ripetitiva, lo “Strudel salato anticrisi” grida vendetta.
Bellissima invece la conclusione. Dopo quattro ore di spettacolo si inscena una partita a rugby con la vera squadra modenese: “Ratto d’Europa” contro “Il resto del mondo”. Sull’”Inno alla gioia” di Beethoven, in situazione di pareggio tra le due formazioni, buio: impossibile stabilire chi sarà il vincitore.
Qualche inutile lungaggine come quella delle ricette, e la decisione di inserire nello spettacolo un ospite ogni giorno diverso per discutere di temi caldi, rischiando di non riuscire a risolvere il breve talk show in spettacolo (come è necessario), comunque, rappresentano gli unici nei di uno spettacolo assolutamente brillante, degno coronamento di uno dei progetti più intelligenti della stagione.
Se questo è, come è, il tempo di lavorare al teatro che agisce, a un teatro che penetri nella vita reale della gente, e se questo è, come è, il tempo di puntare al meglio, mettendo in palcoscenico attori eccellenti scelti con cura uno per uno, “Il Ratto d’Europa” è tra gli spettacoli necessari di questo tempo.
Visto a Modena, Teatro Storchi, il 9 Maggio 2013
Crediti fotografici di Giuseppe Distefano