RUMORSCENA – «“Il mito dell’eterno ritorno”, “Tecniche dello yoga”, il “Trattato di storia delle religioni”, mi hanno nutrito e hanno formato il mio modo di percepire i vari aspetti della realtà e di descriverli a me stesso. Grotowski e io parlavamo spesso di Eliade fin dai tempi in cui eravamo a Opole in Polonia, ma non potevo citarlo nei miei articoli su Grotowski, perché Eliade non era ben visto dal regime. Ma egli dialogava con quella parte che vive in esilio in noi stessi».
Eugenio Barba, lettera a Liliana Alexandrescu, 22 aprile 2007.
Curioso e meritorio il libro (da cui l’eloquente esergo preso da pagina 73) che raccoglie “Tutto il Teatro” di Mircea Eliade, uscito per i tipi milanesi di Bietti a cavallo dell’anno corrente e curato da Horia Corneliu Cicortaș: studioso e saggista romeno da anni residente e attivo in Italia, il quale ha riunito e messo in fila, con paziente dedizione filologica, la cinquina di drammi scritti tra il 1939 e il 1970 dal suo celebre connazionale. Un protagonista notevole, Eliade, del panorama culturale del secolo scorso; assai conosciuto per la vastità e ricchezza delle sue ricerche e pubblicazioni soprattutto sulla storia delle religioni (disciplina di cui è stato riferimento imprescindibile), implementate da un numero impressionante di scritti saggistici e narrativi, diaristici e d’altro genere, di particolare suggestione e molteplice interesse. In un cosmo così sterminato di testi – peraltro degni di farlo annoverare più volte tra i candidati al Premio Nobel per la Letteratura – si pone, allora, come una specie di singolare unicum il manipolo di drammaturgie che egli ha elaborato per un buon trentennio della sua vita da esule, stampandole solo in parte su riviste o fogli esteri mentre, nella nativa Romania, si perpetrava nei suoi confronti l’ostracismo del dispotico regime al potere. E lasciamo stare, a proposito di ostracismo, i reiterati sforzi di certuni esegeti e ricercatori odierni (o meno) volti a ridimensionare, quando non a screditare con rigida perentorietà, la sua poderosa opera tirando fuori riflessioni puntualmente valicate, tuttavia, dalla natura debordante e dinamica di essa: talmente ampia e profonda, sfaccettata ed estesa nel tempo, con parti ancora inedite e/o insondate, da riuscire tuttora a emanare ed esprimere contenuti, stimoli e ispirazioni con assidua vitalità a disparati livelli.
Basta osservare, soltanto per restare in Italia, la lista di titoli che ogni anno continuano ad apparire – si tratti di inediti o nuove edizioni – presso realtà editoriali grosse e non; per tacere degli interventi e dei dibattiti che si scatenano ogni volta al riguardo; senza dovere così varcare confini e/o frontiere illusorie fra gli immaginari, scomodando nomi ed esempi illustri qual è – fra altri – quello di un cineasta come Francis Ford Coppola, se si ripensa al suo tentativo filmico del 2007 d’inoltrarsi nel labirinto di esistenze narrato dallo scrittore di Bucarest nel lungo racconto “Un’altra giovinezza”. Per giunta mi sovviene almeno un terzetto di produzioni teatrali italiane abbastanza recenti, nate sulla scorta della scrittura eliadiana benché, per limitarsi soltanto a quella drammaturgica, non sia mai stata granché nota agli addetti nostrani del settore.
Una è “La colonna infinita” messa in scena dalla regista e artista visiva Letteria Giuffrè Pagano per Telluris Associati nel 2009, incentrata sulla minuziosa performatività fisica di Tazio Torrini tesa a riprodurre sul corpo, incidendo perciò lo spazio dintorno, la complessa e inattingibile verticalità spirituale del dramma: come a volerne tentare il miracolo di una tangibile epifania nell’istante presente, passibile di trasformare in senso superiore la nostra visione terrena dell’esistere e delle sue possibilità d’ascesa. Brioso e scoppiettante, poi, ricordo “La favola di un’altra giovinezza” diretta e drammatizzata da Giordano V. Amato (attingendo un poco pure al film di Coppola) per il Mutamento Zona Castalia di Torino nel 2012: in cui la brillante Eliana Cantone destreggia la sua interpretazione su crismi di teatro di narrazione che s’avvale di idiomi dialettali e canti, accompagnati dalle note di una strumentazione musicale live, virata da Elisa Fighera a punteggiare e raccordare il vorticoso intarsio di piani memoriali e trasformativi che, in filigrana, suggeriscono anche una meta-riflessione sul mistero sciamanico e salvifico del mestiere, nella fattispecie, d’attrice. Dello stesso anno, è la regia per il Teatro Stabile di Catania di Gianpiero Borgia orchestrata sul mito di “Ifigenia”, reinventato da Eliade in una tragedia composta nel 1939 che il regista pugliese fa riverberare di conflitti contemporanei fra popoli, in un’atmosfera di barbara sovratemporalità che schiaccia il presente soffuso di speciose ambizioni e desideri dei personaggi in gioco. Tra i quali, figura l’Agamennone meschino e perdente di Franco Branciaroli che assurge a modello possente di governante (come i più che, oggigiorno, ci tocca purtroppo constatare) umanamente ottuso e inadeguato al cospetto delle crisi politiche, civili e di una correlata comunità d’individui, di cui non sa affatto come dirimerne gli intrichi senza affidarsi al semplicismo inetto d’una sacrificale ‘soluzione finale’.
L’inquadramento di massima esposto finora, non dispiaccia se fa attendere un mio affondo specifico nel libro in questione. Bisognava, d’altronde, restituire figura e spessore al misconosciuto lato teatrale e drammaturgico di Eliade in Italia, provando a incastonarlo dentro la più ampia e annosa cornice della sua persistente, benché dibattuta, fortuna artistica e culturale. Perciò, ho ricordato a titolo dimostrativo talune prove creative, a noi vicine nel tempo, poste a scandagliare la potenziale pregnanza scenica di certi suoi scritti. Scandagli nient’affatto scontati e, infatti, dovuti ancora a pochi intrepidi delle scene italiane; ma che ora possono trovare un contrafforte nel quintetto di testi prettamente drammatici radunati e commentati da Cicortaș nella pubblicazione edita da Bietti.
Corposo tomo di 458 pagine fitte d’informazioni, animate da un ammirevole scrupolo contenutistico e abbondanza di dettagli, in cui si collocano cinque drammaturgie intrise ognuna dal carsico empito penetrativo del simbolismo mitico, insufflato dentro intrecci imperlati di sorprendenti accadimenti e/o oniriche apparizioni che disserrano emblematici tagli. A tal proposito, però, un consiglio: per apprezzare in toto svelamenti, agnizioni e colpi di scena presenti nelle opere, suggerisco di leggere tutti gli apparati introduttivi e di commento solo dopo avere letto i drammi. Altrimenti, se si amano gli spoiler e si vuol di seguito vedere come avviene lo sviluppo drammaturgico di quanto s’è anzitempo scoperto negli scritti di corredo, si sorvoli la mia avvertenza. Un’altra questione consiste in refusi ed errori che balzano agli occhi un po’ troppo spesso nel corso della lettura dei testi, accanto a diversi passaggi negli apparati che a volte ripetono spiegazioni, note e concetti senza che ve ne sia effettivo bisogno. Sarebbe bastato un cosiddetto ‘giro di bozze’ supplementare da parte dell’editor della casa editrice – una sua cura redazionale più attenta e solerte – per accorgersi meglio di quei sovrappiù espositivi perlomeno da snellire (se non togliere), dando al contempo caccia inesorabile a quegli errori e sviste in esubero allo scopo, almeno, di ridurli.
Ciononostante, queste ultime criticità non cancellano i meriti di un volume pregno di argomentati contenuti e nell’insieme ben confezionato, di piacevole grafica e foggia. Nel quale le già citate “Ifigenia” e “La colonna infinita” si pongono rispettivamente all’inizio e alla fine della raccolta: in cui si snodano inoltre il plot cavernoso e ‘biospeleologico’ di “Uomini e pietre”, l’abbozzato e ‘medioevale’ script di “1241”, la vertiginosa «mise en abyme» di “Avventura spirituale”. Una teoria di composizioni, caratterizzate da una dinamica d’inabissamento tanto labirintico quanto metaforico del personaggio chiave d’ogni vicenda che – nell’attraversarne i meandri ipogei e ammantati d’arcano – ha modo di risalire a profonde e segrete essenze vivificanti il proprio autentico Io; svellendosi frattanto di dosso gravami spuri ed escorianti, introiettati per via di condizionamenti sociali, ambientali e culturali, tra cui le forme stesse del linguaggio umano. Lungo un simile percorso, si smagliano allora le rappresentazioni di superficie depositatesi sui vissuti degli individui implicati, con tutto il loro corredo strumentale di infingimenti, falsi idealismi e sterili illusioni: utili solo al quieto vivere, più che a un rivelarsi di se stessi alla Sincerità; a un elemento, ossia, di potente rassomiglianza al nucleo stesso della Vita nel suo affermativo pulsare ed estroflettersi, superando ostacolanti creste e resistenze fatue del reale. Conclusioni che paiono valere poco per “1241”, dramma troppo embrionale perché se ne colgano sviluppi e risvolti; sebbene, in verità, già le sue prime sequenze squadernino all’orizzonte uno scuro e salvifico dedalo boschivo, dentro cui sparisce una selva di persone in fuga per molteplici sentieri incalzati da invasori stranieri.
D’altro canto, un’alea di labirinto avvolgente, denso e articolato promana pure dall’avvicendarsi medesimo delle parole lungo siffatte drammaturgie. La scrittura teatrale indiziata, difatti, è verbosa e volentieri intellettuale, nondimeno metafisica. È un mulinare fluente di riflessioni, dibattiti, argomenti, dilemmi, tesi e contro-tesi virtualmente senza posa e talvolta sfuggenti nel loro aprirsi anche a squarci di fantastico. E se tutto ciò, alla lettura, offre parecchie sponde per favorirne un decorso mosso, ricco di motivi e attrattive a cui attraccarsi; in fase di trasposizione scenica rischia invece di caricare oltremodo le labbra dell’interprete, a scapito di una recitabilità che arrivi in maniera ficcante all’uditorio, battendo in breccia un tal diaframma d’inanellamenti. Una cifra stilistica e d’espressione, insomma, da tenere presente per chi voglia accingersi a mettere in scena le pièce in esame, al fine di cavarne fuori con arte comunicativa – operando debiti adattamenti e riformulazioni – lo stuolo di complessità spirituali e speculative, artistiche ed estetiche di cui sono intrise. In più, considerando quanto in genere siano impegnative, a leggerle su carta, le didascalie scenografiche indicate dall’autore romeno; o persino irrealizzabili, nell’ipotesi di volerne attuare talune alla lettera.
Tuttavia, non si giudichi con eccessiva severità la dovizia verbale appena rimarcata. Eliade dissemina spunti, replica temi, infittisce discorsi e architetta spazi d’esplorazione poiché – lungo la rigogliosa scia di un tale affastellarsi – è come se inseguisse o cercasse caparbiamente di scovare quella particolare concatenazione espressiva in grado, ad un bel momento, di cogliere la piega logica rivelatrice, la movenza intuitiva, l’illuminata formulazione di un mondo al di là, ove è finalmente praticabile la danza di un diuturno rinascere a propri e migliori altri da sé. Analogamente all’arte teatrale, cioè, per la quale è costitutivo vivere e morire nella fugace ora di ogni sua recita: pronta comunque, prima o poi, a darsi e dare di nuovo vita per noi.
Riferimenti e Link
Mircea Eliade, “Tutto il Teatro”. 1939–1970, a cura di Horia Corneliu Cicortaș, Bietti, Milano, 2016.