RUMOR(S)CENA – Sono ormai lontani i tempi in cui la musica di Dmitrij Dmitrievič Šostakóvič (1906-1975) era oggetto di scherno da parte degli esponenti della “Nuova Musica” europea. La mancata adesione ai dettami formali del serialismo integrale e il non aver preso una posizione antagonista nei confronti delle dottrine estetiche di stampo sovietico fecero bollare la musica del compositore di Leningrado come reazionaria. A ciò si aggiungeva il fatto che le avanguardie hanno sempre mal digerito quei compositori che riscuotevano successo di pubblico. Infatti, nonostante le limitazione che il governo sovietico gli impose, Šostakóvič è sempre stato un artista popolare e apprezzato in tutto il mondo anche durante la Guerra Fredda.
Certamente uno dei motivi della notorietà del compositore sovietico era dovuta alla relativa accessibilità della sua musica, capace di catturare l’ascoltatore attraverso ritmi nervosi, percussioni militaresche, armonie aspre, melodie malinconiche e temi bambineschi. Tuttavia, alle volte, la geniale arte del compositore di Leningrado è stata messa in secondo piano dalla narrazione sulla complicata relazione tra Šostakóvič e il regime sovietico. Noi però pensiamo che sia necessario nutrire una sana diffidenza per la monumentalizzazione di un artista, specialmente se questa è piegata per pure questioni ideologiche. Infatti, l’adagio paradigmatico “Šostakóvič genio musicale soffocato dall’angusto potere sovietico” ci pare ormai ammuffito come pure certa musicologia anglofona post-bellica che lo propugnava. Certo, attorno al mito della vita di Šostakóvič si sono scritti grandi romanzi contemporanei in Occidente (Europe Central di William T. Vollmann e Il Rumore del tempo di Julian Barnes), pur tuttavia è sempre più interessante e stimolante riflettere sulla musica del compositore sovietico e sul suo peculiare modernismo ‘alla russa’. Secondo noi, infatti, sono le qualità espressive della musica e non solo una biografia esemplare a determinare il successo di un compositore come Šostakóvič. Per questa ragione, sono sempre da incentivare gli studi sulle soluzioni ritmiche o sugli impasti timbrici nei grandi affreschi orchestrali di Šostakóvič, così come sono da valorizzare le analisi sulle elaborazioni tematiche e sulle scelte armoniche del compositore sovietico nella sua musica da camera. Non solo: è fondamentale anche quella saggistica che valuta come la musica strumentale e operistica di Šostakóvič sia stata influenzata dalla musica popolare, dal cinema e dal teatro d’avanguardia, dalle teorie del formalismo russo, dal byt sovietico, dallo scambio umano con altri artisti, ecc.
L’Italia, sfruttando in particolare le relazioni privilegiate con il mondo della musicologia russa contemporanea, è stata ed è all’avanguardia nella valorizzazione ‘musicale’ dell’opera di Šostakóvič negli ultimi decenni. Pioneristico, in questo senso, fu la monografia Šostakovič (edt, Torino 1988) di Franco Pulcini, salutato da Quirino Principe come «il grande libro italiano per eccellenza su Dmitrij Dmitrievič Šostakovič». L’Italia, inoltre, ebbe l’onore di ospitare all’Università di Udine un convegno internazionale nel 2005 a trent’anni dalla morte e a quasi cento dalla nascita del compositore sovietico. Gli atti del convegno, oggi raccolti nel volume Dmitrij Šostakovič tra musica, letteratura e cinema (Olschki, 2008), presentano interventi dei più autorevoli studiosi dell’opera di Šostakovič, da Manašir Jakubov a Pauline Fairclough, da Rosamund Bartlett a Valerij Voskobojnikov.
Ancor più recente è il volume Dmitrij Šostakóvič. Il grande compositore sovietico (Mudima 2020), tomo di pregevole confezionamento che, insieme allo splendido l’apparato iconografico curato da Anna Soudakova-Roccia, accoglie ben ventisette contributi per la maggior parte inediti in Italia e apparsi precedentemente in Russia nei volumi D.D. Šostakovič: Pro et contra (rggu-rchga, 2016) e in Šostakovič v Leningradskoj Konservatorii: 1919-1930 (Kompozitor, 2013). Tra gli scritti inediti, spicca in particolare il saggio del compositore e performer Daniele Lombardi, voce di spicco dell’avanguardia musicale italiana contraddistinta anche per la sua familiarità con le istanze estetiche provenienti dalla Russia rivoluzionaria. La prima parte dell’opera, che ospita due saggi della direttrice del Teatro Mariinskij Anna Petrova, illumina il contesto sociale e culturale della Russia rivoluzionaria che ispirò l’éthos esuberante del compositore in giovane età. Nella seconda parte del libro, meno culturalista e più musicologica, sono ospitate voci di studiosi del passato e del presente, in un costante alternarsi tra chicche d’archivio e ricerche contemporanee. Per esempio, al saggio del critico musicale Ivan Sollertinskij scritto in occasione della prima della Lady Macbeth del Distretto di Mcensk nel 1934 fanno da contrappunto i tre saggi di Franco Pulcini, Roberta De Giorgi, e Manašir Jakubov sulla medesima opera. In questa sezione è assai apprezzabile anche la valorizzazione dell’opera šostakovičiana “minore”. Lodevoli, in questo senso, sono i lucidi saggi di Levon Hakobian, Luigi Pestalozza e Edoardo De Filippo dell’opera avanguardista “Il Naso” tratta dal celebre Nikolaj Gogol’. Segnaliamo inoltre il contributo del famoso poeta Evgenij Evtušenko, il quale ricorda quando Šostakovič, manifestando un profondo senso civico, gli chiese il permesso di musicare la controversa poesia Babij Jar (1961). Da questa collaborazione (da cui nacque anche una profonda amicizia) venne alla luce prima il progetto del poema vocale-sinfonico Babij Jar e poi la Sinfonia n°13, nella quale Šostakovič, oltre ai versi evtušenkiani dedicati all’eccidio del 1941, musicò una serie di liriche dell’amico. A chiudere questa sezione è lo splendido saggio autobiografico di Valerij Voskobojnikov, il quale ripercorre i suoi lodevoli sforzi nel promuovere la musica di Šostakovič (e in generale quella russo-sovietica) in Italia. Nell’ultima parte del tomo, a risaltare è l’autobiografia del compositore, contrappuntata da un apparato di foto d’archivio.
Tuttavia, la musica di Šostakovič, prima che essere studiata attraverso la Storia e le partiture, deve essere ascoltata il più possibile dal vivo per essere apprezzata in tutte le sue sfumature. Durante questa primavera, i musicofili meneghini sono stati abbastanza fortunati perché le sinfonie del compositore di Leningrado sono state più volte proposte. Per esempio, la Sinfonia da Camera e della Sinfonia n°5 sono state protagoniste nel cartellone de La Verdi di Milano nella stagione 2021/2022. Senza però nulla togliere alle brillanti e convincenti esecuzioni di questi capolavori diretti dalle bacchette di Andrey Boryenko e Vlad Vizireanu, riteniamo concentrarci maggiormente sul concerto del 16 maggio al Teatro La Scala, dove il pubblico milanese ha avuto la fortuna di assistere ad una rara esecuzione della Sinfonia n°15 da parte del Maestro Pedro Amaral e dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai nell’ambito del 31° Festival Milano Musica. È significativo infatti che un festival come Milano Musica, da sempre all’avanguardia nel proporre al pubblico partiture ardite di compositori contemporanei (Helmut Lachenmann, Salvatore Sciarrino, Dmitri Kourliandski, Thomas Adès, Filippo Perrocco, Stefano Gervasoni, ecc.), abbia ridato un certo lustro ad un brano ricco di un’ironia sfacciata, anacronistica ed esuberante che, apparentemente, si conforma poco con il tono serio e intellettuale della musica che ancora oggi aspira a ricercare nuove soluzioni sonore. L’aver inserito la Sinfonia n°15 ha rappresentato quindi una sorta di conciliazione simbolica tra la “Nuova Musica” e l’opera di Šostakovič.
Ad affiancare, in apertura di serata, il capolavoro del compositore di Leningrado sono stati due brani commissionati dal violinista Vadim Repin (che ha affiancato in qualità di solista l’Orchestra della Nazionale della Rai) composti da due compositori provenienti dall’ex blocco sovietico e ben conosciuti in Italia: Sofija Gubajdulina (vincitrice alla Biennale di Venezia del Leone D’Oro nel 2013) e Arvo Pärt (ospitato dal Monastero di Bose). L’intensità malinconica del dialogo tra violino e orchestra in Ich und Du (2018) della Gubajdulina e la in La Sindone (2005-2022) di Pärt hanno preparato gli spettatori ai “saliscendi emotivi” della sinfonia del compositore di Leningrado, la quale alterna in quattro movimenti passaggi ritmicamente brillanti, lunghe marce funebri e citazioni ironiche provenienti dalla musica di Gioacchino Rossini e Richard Wagner. I due Allegretti, posti come primo e terzo movimento, stupiscono per l’intensità che il compositore riesce a tirare fuori da un organico strumentale quasi “cameristico” se paragonato alle masse coinvolte nelle sinfonie šostakovičiane. La dimensione relativamente ridotta dell’organico però è inversamente proporzionale alla calibrazione degli impasti timbrici degli strumenti: la particolarmente variegata sezione delle percussioni (che comprende l’immancabile, per Šostakovič, tamburo militare, la celesta, il glockenspiel, il tam-tam, il vibrafono ecc.) non soffoca mai, infatti, le tessiture degli archi, dei legni e degli ottoni. I due “Adagio” hanno invece tutt’altro umore: il sapore čajkovskiano e mahleriano di questi movimenti si nutre della magniloquenza dei disegni melodici degli ottoni e dei violoncelli, i quali creano un’atmosfera meditativa ma potenzialmente sempre pronta ad incendiarsi.
La Sinfonia n°15, con la sua alternanza di tonalità di ebbrezza e di malinconia, può essere interpretata come un’allegoria della movimentata vita di un anziano e geniale compositore. La scelta artistica di Milano Musica, che ha affiancato precedentemente all’esecuzione del capolavoro šostakovičiano due brani contemporanei dalle atmosfere cupe e meditative, concretizza un percorso d’ascolto che ci richiama infatti a una riflessione spirituale situabile sull’estrema soglia di un’esistenza umana. Ricordiamo, a questo proposito, che il tema del Festival meneghino verteva sulla valorizzazione musicale dei caratteri di Hermes, Orfeo ed Euridice. Quale miglior brano del tardo Šostakovič è infatti in grado di coniugare la frenesia ludica propria del messaggero dell’Olimpo e il torpore languido di una catabasi se non, appunto, la Sinfonia n°15? Tuttavia, nella musica di Dmitrij Dmitrievič la convivenza tra istanti di gioco e di raccoglimento è impastata da un umorismo che dona una tonalità peculiare a tutta l’esperienza estetica dell’ascolto. In altri termini: soverchiati dalla malinconia apocalittica suggerita dall’Adagio finale, noi possiamo far emergere dal ricordo la squillante citazione al Guglielmo Tell di Rossini posta all’inizio del primo Allegretto per riempire lo spazio e il tempo rarefatto del quarto movimento. Rammentando quell’istante musicale sbilenco (che ha un tempo differente dall’originale) e fanfaresco (che è suonato dai fiati anziché dagli archi come aveva previsto Rossini) mentre ascoltiamo una tessitura musicale gravosa e amara, riusciremo infatti cogliere la squisitezza di una poetica e di una Weltanschauung in grado di sfumare umoristicamente i confini tra l’esuberanza vitalistica e la meditazione funerea.
Dopo una Primavera šostakovičiana come questa appena passata, ci auguriamo che prestissimo si torni in Italia a scrivere nuovi saggi sull’opera di Šostakovič ed ad ascoltare la sua musica dal vivo, magari quella tratta dalla sua opera più trascurata dai repertori delle orchestre e degli ensemble. Perché non possiamo resistere all’umorismo che permea l’intera produzione di questo occhialuto compositore di Leningrado.
di Michail Talalay e Carlo Caccia