Dentro il nero claustrofobico si cela il malessere psichico, trasformatosi in una ferita lacerante della propria esistenza. Segnata dall’ineluttabilità che conduce verso una soluzione estrema, quella dove l’essere umano, annienta con le proprie mani, la sua vita per sempre, attraverso un gesto senza ritorno. Il suicidio. E’ la psicosi che porta a togliersi la vita, descritta da Sarah Kane in Psicosi delle 4 e 48, un orario a notte fonda, momento topico e molto frequente (secondo le statistiche), in cui le persone sofferenti decidono di suicidarsi, come ricorda bene Luca Scarlini nella sua introduzione in “Tutto il teatro” di Sarah Kane (Einaudi editore. Collezione d’autore), raccolta di cinque scritture per il teatro.
Psicosi, male oscuro, patologia che si declina in molteplici forme, spesso celate sotto mentite spoglie. Eppure devastanti e inquietanti, fonte di indicibili dolori, come è ben stato rappresentato nel monologo portato sulla scena astratta e sospesa in un vuoto dal color cinereo, privo di qualsivoglia riferimento spaziale e temporale. Ci alberga dentro lei, la protagonista di Psicosi delle 4 e 48, visto in prima nazionale al festival Inequilibrio a Castiglioncello.
Elisa Pol è seduta su una sedia che ruota durante tutta la sua dolorosa esplicazione del male che invade la sua incerta esistenza. In fondo alla scatola nera (siamo in una delle stanze del Castello Pasquini) dove solo pochi spettatori per volta, assistono al suo grido sussurrato di dolore, c’ è anche Maurizio Lupinelli, presenza discreta, quasi impalpabile e celata dal buio metafisico della scena. E’ lui a firmare la regia, un artista – impegnato anche socialmente – nel seguire un percorso drammaturgico dedicato alla contemporaneità e alle diverse declinazioni del disagio. Una persona che attraverso il teatro stabilisce dei contatti profondi ed empatici tra chi assiste e gli attori-performer, a volte diversamente abili. Non per farne un genere di teatro per commuovere, bensì esperienze dirette e personali, capaci di dare senso e riconoscimento delle proprie qualità -attitudini umane e relazionali.
Le parole del testo di Sarah Kane hanno un peso drammaturgico come fossero sassi lanciati verso un muro di metallo, quanto il loro suono che rinfrange dentro a chi le ascolta. Sono parole dotate di senso e di immagini evocative – dolorose e stridenti- mai sopite da alcunché antidoto in grado di ridurne le conseguenze nefaste. La parola di Sarah Kane – Elisa Pol, arrivano fulminee come frecce intrise di curaro, e penetrano ferali dentro le deboli coscienze degli ignari astanti. “Non riesco a vincere il senso di solitudine, di paura, di disgusto….. /Galoppo verso la morte…..” e l’apoteosi depressiva e mortale arriva allorché l’attrice capace di immedesimarsi nel calvario, descritto dal testo della drammaturga inglese, scomparsa a soli ventotto anni nel 1999, le fa dire: “Mi sono depressa così tanto al pensiero della mia mortalità che ho deciso di suicidarmi…. Io non voglio vivere”.
E’ la sentenza che si assegna da sola come per voler espiare una colpa mai commessa. O più semplicemente (il codice di lettura è qui) per il fatto stesso di stare male. L’unica soluzione è quella del suicidio, estremo tentativo di alleviare il proprio sconfortante e devastante dolore. Non c’è cura che tenga, non c’è farmaco in grado di far riemergere dal quel buio intriso di lacrime e sangue che non cola. E’ tutto dentro, celato, racchiuso come in una cassaforte dove i numeri della combinazione per aprirla sono stati distrutti.
E’ un po’ la morale del testo, a cui Maurizio Lupinelli assegna a Elisa Pol, il compito di spiegarlo, grazie ad una sua immedesimazione scenica e recitativa dall’esito molto convincente. Lo dice il regista nel suo programma di sala quando scrive: “Dedicato a tutte le persone per cui l’unica via d’uscita al mancamento è stato un gesto così crudelmente vero”. Vero come è vero il dolore, la paura, la solitudine dell’uomo. E anche le nostre fragili esistenze.