RUMOR(S)CENA – PRATO – C’è un cumulo di armature al centro del palco. Emerge appena dall’oscurità, tanto che l’acciaio non luccica più del cuoio grezzo, in quel groviglio di elmi, spallacci e schinieri. Ma ecco che una mano li raccoglie, li dispone a terra separandoli gli uni dagli altri: nel buio Lancillotto la osserva, perché lei è Ginevra e assieme alle armature, sta sciogliendo il filo della loro terribile storia.
È affondo di spada, la vicenda dei due amanti raccontata da Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva, uno squarcio palpitante sul corpo del ciclo arturiano, ferita inaspettata ma fatale. In questo senso, lo spettacolo prodotto dal Teatro Metastasio si rivela particolarmente suggestivo: il formato di un’ora, l’allestimento minimale e la sobrietà complessiva restituiscono l’idea della microstoria, del batterio capace di abbattere il mastodonte.
Piccolo, ma di notevole profondità almeno formale, perché l’aspetto letteralmente scuro (la luce di Massimo Galardini è quasi esclusivamente usata per fendere l’oscurità persistente) riesce a cancellare del tutto i colori, che altrimenti innescherebbero precise associazioni archetipe. Ad esempio il rosso non esiste e con esso, non c’è il sangue: quando Lancillotto mostra la propria mano insanguinata, vediamo solo le dita nude di Edoardo Sorgente e la palla passa all’inconscio, in una sorta di evocazione depurata dai simboli. Allo stesso modo, la luce si allarga appena sul buio e in scena Lancillotto viene disarcionato e cade in acqua: in quella radura di luce abbiamo il bosco, ma senza che “verde” ci passi mai per la testa; così come l’acqua, ha il compito di rendere “l’uomo bagnato” e se ne infischia di essere blu, trasparente o magari sporca.
Ci viene detto che un capello di Ginevra è in grado di competere con l’oro: ma invisibile fin dall’inizio sparisce subito in una tasca del Cavaliere della carretta. Senza il sangue, il naturale, senza l’ideale e i relativi colori, non rimane altro che l’abisso emotivo, crudelmente materializzato dall’impotenza della luce, nonché dalla performance dei due protagonisti: Leda Kreider e Edoardo Sorgente. La coppia trascina il pubblico in profondità e anche oltre, in una caduta che è volo verso l’ultra baritonale, il viscerale; e aldilà del piacere per le considerazioni che può stimolare uno spettacolo intelligente, è la loro prova ciò che più colpisce e rimane in testa. All’inizio abbiamo osservato Ginevra-Kreider ordinare le armature dei cavalieri, in modo che la storia cominci, ma anche tutte le altre scene prenderanno corpo grazie ai gesti e l’interazione con lo spazio scenico. Lo storyboard di Lancillotto e Ginevra segue una narrazione apparentemente decostruita, eppure molto precisa e impegna gli attori nell’allestimento di una propria piattaforma multipla: il posizionamento sul palco, il tempo, la voce nuda e la dimestichezza con il filtro della microfonazione.
Infatti, quando compaiono i microfoni, ecco che nelle parole di Lancillotto si avvertono i risuonatori della voce in maschera, e Sorgente fa sperimentare a chi ascolta l’intima conversazione tra due primissimi piani. Leda Kreider e Edoardo Sorgente risultano adeguati, accordati per intenzione e sfumatura a un progetto che in qualche modo li accomuna nell’approccio: eleganti, affascinanti, affilati e dirompenti, almeno nella penombra dello spettacolo i due si assomigliano e insieme, non c’è dubbio, funzionano.
Tuttavia, dovrebbe essere considerata l’eventualità di porre rimedio a quel consueto meccanismo per cui, in un testo dove si rappresenta una coppia paradigmatica, l’affiatamento passa quasi sempre in secondo piano. Beninteso, nel caso fosse voluta la scelta è del tutto legittima, ma una certa compenetrazione empatica non guasterebbe, né rovinerebbe la piacevole freddezza del racconto.
Dalla premia al Fabbrichino di Prato, il testo di Lancillotto e Ginevra esce molto bene. Forse non aggiunge chissacosa all’universo delle fonti originali, ma dimostra cura e rispetto filologico, con quella sua inclinazione all’intrattenimento intelligente. Azzeccato l’alternarsi dei linguaggi, con la prosa che cede il passo alla lassa quando i personaggi tentano d’incorniciare sentimenti e azioni nell’universo ideale della poesia, pur sapendo che il tempo dell’aulico sta per tramontare. Galeotte furono anche le musiche, con i loop elettronici e i contrappunti che Pietro Guarracino ha ottenuto rimaneggiando pezzi indie e fanfare orchestrali, in un immaginario sonoro originale che scansa brillantemente l’allarme playlist (che a teatro scatta troppo spesso, perché possa essere ancora perdonato) e costruisce bellissimi crescendo per le voci degli attori.
Si ha spesso la sensazione di stare sotto al palco di un club ad ascoltare un gruppo post rock, emisfero da cui Lancillotto e Ginevra mutua la convivenza tra suoni preprodotti ed esibizione dal vivo, con l’elemento umano che si lacera sopra alla ripetitività monolitica dei campionatori. La musica è parte della drammaturgia, ma nel contempo la contiene, rispecchiandone la tonalità autoriale: una tensione al “post”, del quale Giovanni Ortoleva sembra aver cara l’eleganza e la validità espressiva, aldilà di ogni ansia innovativistica.
Visto al Teatro Fabbrichino di Prato, 08/11/2022