RUMOR(S)CENA – RESISTERE E CREARE – TEATRO DELLA TOSSE – GENOVA –
“Il kung fu è di tutti, ma non è per tutti” si legge nel programma di sala di Uroboro e ascoltata poi dalla voce dall’ Allievo che è interpretato da Sebastian O’Hea Suarez. Lo spettacolo inizia con il buio.Una maschera di rana dalle fattezze umane ci guarda dal palcoscenico. Udiamo il suono di una campana tibetana: è il prologo di Uroboro, creazione di e con Simona Ceccobelli e Sebastian O’Hea Suarez. Un profumo di incenso si diffonde con il suo rivolo di fumo da un armadietto in stile orientale sistemato a lato del palcoscenico. Entra Simona Ceccobelli (il Maestro), tutto è perfetto, i riti propiziatori dell’attesa, i movimenti, l’abbigliamento morbido tipico cinese, l’espressione serafica, il silenzio. Ma poi arriva l’Allievo rompendo vasi e la tranquillità e tutto prende la forma dell’umorismo composto, corretto, esilarante. Il maestro ingaggia una tenzone per mettere a dura prova l’allievo, il quale molto goffamente si affanna, si contorce al limite del possibile per seguirlo ed inseguirlo, con un’abilità buffa, un’espressione stupita ed accattivante, dimostrando prodigiose doti da contorsionista. Li seguiamo attingere alcune massime zen dai bigliettini che il maestro estrae dalle sue tasche e che diventano lunghissime pergamene da srotolare con le modalità più complicate e faticose e spassose che una mente umana possa escogitare: «La relazione tra Maestro e Allievo è spontanea; col tempo l’Allievo percepisce come qualcosa di più profondo …»
Vi è una certa poetica – in apparenza – di questo semplice lavoro dei due abili performer il quale potrebbe voler significare la difficoltà del tutto umana nel seguire gli insegnamenti imposti e proposti, fino a giungere alla consapevolezza che il lasciare ed il lasciarsi andare è la chiave di volta da sperimentare nell’ambito delle relazioni tra esseri umani. Lo abbiamo domandato agli stessi creatori ed interpreti, Simona Ceccobelli e Sebastien O’Hea Suarez.
«Lo spettacolo ha preso forma in assenza dell’intenzione di diventare una vera e propria creazione, ma piuttosto come un esercizio di improvvisazione. Non avendo mai attuato un vero e proprio lavoro di scrittura, la stessa si è creata e sviluppata nel mentre agivamo per tentativi. Tanti elementi sono venuti, e ancora vengono fuori oggi, sia in teatro che fuori, mentre il lavoro continua ad evolversi e noi continuiamo a scoprirne nuovi significati. La tematica delle relazioni è principale così come l’evoluzione che i due personaggi sperimentano come risultato della loro interazione. Noi scegliamo di parlare dell’incontro tra un maestro e un allievo, ma lo spettacolo lascia liberare il pensiero allo spettatore, concedendogli di formulare il proprio significato: la relazione tra esseri umani è complessa e porta con sè mille forme di significati. La performance cerca di liberare la mente e di lasciar intuire senza parole e senza spiegazioni, imparando a sentire con uno sguardo più semplice, al di là de i condizionamenti mentali».
Scopriamo che il termine Uroboro contiene un significato proveniente dalla letteratura magica egizia, ed è rappresentato dall’animale simbolico a forma di serpente (o di drago) che morde o inghiotte la propria coda formando un cerchio; in campo esoterico rappresenta la natura ciclica di tutte le cose, il finire ed il ricominciare all’infinito.
E così finalmente l’Allievo può svestirsi de i propri abiti da umano fino a rimanere come si suol dire “in mutande” per assumere anch’egli la divisa del Maestro, con una cerimonia che non ha nulla di serio ma pur sempre dal taglio solenne, il tutto condito da uno sguardo tronfio e soddisfatto. Il suono della campana tibetana scandisce la fine della poetica e divertente performance e del rito, ma anche che un nuovo inizio e una nuova storia sono alle porte.
La Compagnia elvetica Linga, fondata nel 1993 dagli artisti associati Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo, si impone rapidamente con il proprio repertorio sulla scena internazionale. Il processo coreografico della Compagnia ha progressivamente dato origine ad un vocabolario in sintonia con questioni politiche e sociali, esplorando questi fenomeni attraverso la danza, mettendoli in discussione ed elaborandone le ripercussioni sul corpo.
È una danza fisica, potente e sensuale messa in scena dai coreografi Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo scelta per la loro nuova creazione Flow (Flusso), e ispirata all’affascinante mondo della fauna selvatica. Sette danzatori (Aude-Marie Bouchard, Marti Güell Vallbona, Ai Koyama, Andor Rusu, Manuela Spera, Csaba Varga, Cindy Villemin) ed il duo di musicisti Keda, Mathias Delplanqu e E’Joung-Ju, per la prima volta insieme danno vita in sessanta minuti con un’opera totalmente originale. I musicisti sono posti ai due lati di un palcoscenico a tutta vista, spogliato delle quinte, speculari a loro stessi. Non si è attratti immediatamente dalla loro presenza mentre i danzatori iniziano a muoversi lentamente ed all’unisono, creando e scomponendo cerchi concentrici. Al progredire dell’aumento della velocità della coreografia nello spazio, rimaniamo sorpresi alla vista dello strano strumento dal suono ipnotico agito per mani della musicista coreana, coadiuvata dai giochi elettronici creati dal suo compagno che “suona” il sintetizzatore dall’altra parte del palco.
I brani musicali eseguiti dal vivo, a tutti gli effetti co-protagonisti della pèrformance, sono creazioni originali del duo Keda, formato da Mathias Delplanque – noto compositore di musica elettronica francese nato in Burkina Faso e l’eclettica musicista coreana di origine francese E’Joung-Ju, maestro del Geomungo, lo strumento tradizionale coreano in legno a sei corde, di origini millenarie, una sorta di cetra, suonata come fosse un basso elettrico, capace di creare una sonorità ipnotica ed immaginaria. Tra oscillazioni, bruschi cambiamenti di traiettoria, movimenti ondulati o a scatti, gli interpreti esplorano le regole comportamentali, decodificano le loro variazioni istintive, mettono in discussione le relazioni tra individuo e gruppo. Il movimento quasi sincrono è quasi sempre composto da influenze individuali, ma pur sempre consapevole di ciò che sta avvenendo intorno a loro: come un vero e proprio branco animale intelligente ed istintivo allo stesso tempo, che affronta la propria migrazione.
L’approccio di Flow potrebbe apparire più estetico, quasi freddo, ma non si può non considerare che sia dotato di una grande vivacità e fisicità fatte di continue azioni, incessanti, sfiancanti, sudate. Fino alla fine, anche rallentando il ritmo, l’attenzione non la si può distogliere, né dai danzatori né dai musicisti, e l’immersione è totale, ipnotica, ancestrale.
Visti il 7 dicembre 2019 al Teatro della Tosse di Genova nella Rassegna Resistere e Creare
Flow spettacoloVincitore del “Current Dance Works Award” al Swiss Dance 2019 Award