NAPOLI- La skené, habitat d’attore, spazio vitale. Fuori, l’esistenza di esseri simili che l’attore rappresenta, interpreta, trasfigura, mimetizza. Un animale tra animali ma da palcoscenico, immolato nel restituire sembianze quali lo spettatore non riesce ma desidererebbe essere. “Mangiare e bere. Letame e morte” rappresenta l’individualità di un’artista, Alessandra Fabbri, danzatrice, per megafonare l’urgenza di autodefinirsi senza creare gabbie di etichetta e relativo consenso, senza il bisogno di giustificarsi. L’indagine, piuttosto, su sé stessi per agire universalmente, per fotografare dinamiche collettive o semplicemente per lasciare tracce emozionali al pubblico spettatore. Perché il patto tacito tra uditori immobili e attori si stabilisce quando la distanza è sottratta dall’empatia corrisposta, dall’emozione. Nessun gesto potrebbe lasciarsi oltrepassare se costruito in modo esclusivamente formale, rigoroso, confezionato.
L’individualità dell’artista Fabbri nel pensare ad alta voce sul proprio mestiere, i trascorsi, le ispirazioni. Su una scena allestita con pochi materiali visivi, in proscenio – sferzante approdo e primo codice di lettura per pubblico – elementi naturali, arbusti, dei secchi – indicanti probabilmente la simbologia del lavoro, del lavoro operaio – con argilla, impasto per trucco, acqua. Elementi terreni, humus. Sotto luce naturale, giocata in coni e tagli. Una corda in boccascena, guinzaglio, catena: l’attore è “costretto” nel suo habitat, nel suo contesto, unica dimensione possibile.
L’individualità della persona Fabbri, concessa al pubblico attraverso il linguaggio della tecnica, dell’iconografia del teatro in movimento, pescando nella poetica Bauschiana, tratteggiando al lirismo danzante della Graham – un omaggio in un quadro scenico alla passione della grande ballerina in relazione alle tematiche del trasposto – incidendo con drammaturgie dialettico/visive personali esplicitate nella potenza, nella limpidezza dell’atto creativo.
La regia di Davide Iodice trama, nella poetica visiva (e visionaria), il corpus dello spettacolo che ben si presta a molteplici sguardi e altrettanti cenni espressivi, chiari, tradotti dall’erotismo della comunicazione artistica. L’erotismo non determinato dalla sensualità bensì dallo svelarsi attraverso l’espressività indiretta, non immediatamente intellegibile, codificata dalla voce off dell’attrice (caratteristica tecnica): quadri per immagini in movimento, silenti e urlanti. Un’impronta registica mirata, non invasiva, a comporre l’insieme di tracce audiovisive, corporee, restituendo un disegno simmetrico, figurativo senza imporre rigori o limitanti schematismi. Liriche del corpo costruite nutrendosi dell’apporto personale dell’attorice, da animale d’istinto, istinto liberato. Per un teatro da incamerare, qualora si volesse pensare alle definizioni, nel contesto della produttività post-drammatica in cui il verticalismo non si delinea per indottrinamento ma per ricerca di contatto estremo. Qualche mancato allaccio tra un quadro e un altro, relativamente a ritmi piuttosto che consequenzialità di scena, fra i pochi nei dello spettacolo.
Uno spettacolo in continua tensione emotiva, avvertito come un travaglio in itinere, un denudare strutture, un amplificare la dimensione d’ascolto. Uno spettacolo che si ascolta, anche con lo sguardo. E con l’intimo. Per immagini, materiali verbali, suggerimenti e condivisione. Dialogando col pubblico chiamato in causa e perfino sul palco. Uno spettacolo per uditori non ipocriti.
Visto martedì 8 aprile al Teatro Piccolo Bellini – Napoli
Mangiare e bere. Letame e morte
Con Alessandra Fabbri
Drammaturgia, spazio scenico, luci e regia di Davide Iodice
Coreografia: Alessandra Fabbri e Davide Iodice
Produzione: Interno 5