LECCE – Scegliere il silenzio. Perché fuori è un bombardarsi di schiamazzi, dicerie. Perché la parola viene abusata, sterilizzata. Perché si può dire molto di più in silenzio che cianciando. Scegliere il gesto. All’immobilismo delle postazioni computerizzate, avamposti di questi tempi. Al mutismo affettivo, all’anoressia delle manifestazioni, all’ingessarsi dei corpi chiusi in sé. Scegliere il corpo. Per comunicare. Per comunicarsi. Per unirsi. Per rappresentare. Per rappresentarsi. Un modo per descrivere Aure, della compagnia TeatroPersona di Arezzo, è riuscire a essere poetici come è lo spettacolo. La poetica del linguaggio muto, del gesto, la parola non scritta, la partitura tra danza e corporeo, il movimento lento, l’oggetto drammatizzato, il personaggio reso grazie al suo esprimersi senza fiatare. La poetica del bianco e nero, della luce soffusa, del buio appena schiarito.
Tre porte, una per parete. Tre attori. Innumerevoli figure. E un mondo. Quello di Proust. Dove storie, paesaggi, persone sembrano lasciare la consistenza materica, terrena per irrorarsi di un alone altro: l’aura. Un’estensione di sé nutrita dagli afflati del sentire, del sentimento, della compartecipazione alla realtà, all’altro, a sé. E’ vero che un linguaggio a cui si è poco abituati provoca disattenzione, noia, poca godibilità in un pubblico predisposto ad altro di solito. Troppa l’aspettativa nella parola o in codici sdoganati per apprezzare a pieno uno spettacolo del genere. Ma il creare dissenso rimane qualità degli spettacoli destinati ad andare in profondità. Negli occhi e nella memoria degli spettatori. Compiaciuti o annoiati che siano. Tre attori e intrecci che si intuiscono, si colgono, si guardano. Drammaturgie non esposte, dettami registici non invasivi, un’acuta speculazione di spazio (luogo) e segno. Le storie appaiono, delineano i contorni, si fanno prendere, ma occorre spirito di adattamento al codice non immediatamente fruibile e accantonare aspettative.
Succede più volte durante la rappresentazione che Chiara Michelini, straordinaria (soprattutto nel tradurre con il linguaggio fisico), va oltre il proscenio mimando l’accingersi al parlare… un dolce inganno per la platea. Ma quell’inganno che sta nel patto tacito stabilito a monte, tra chi guarda e chi agisce. Quel non svelarsi per congiungersi, nella migliore della ipotesi. Pochi oggetti fanno da scenografia, nessuna quinta, pochi costumi. Pelle e nudità, luci e ombre. E parti, ruoli, situazioni, colpi di scena. Tutto quello che si vede di solito a teatro ma in silenzio. Che non è assenza di voce. Da quando lo spettatore accetta la chiave di lettura, lo spettacolo decolla. Tentando, in una prima parte, di abituare lo spettatore all’insolito. E stentando in climax e appeal. Una visione gentile, confortevole.
Aure
Drammaturgia, Regia, Scene, Luci: Alessandro Serra. Con Daria Menichetti, Chiara Michelini, Francesco Pennacchia. Prod. TeatroPersona (Ar) e altre coproduzioni.
Visto sabato 11 aprile ’15 ai Cantieri Teatrli Koreja – Lecce