MILANO – Lo aspettavamo con ansia, come ogni nuovo spettacolo degli Anagoor, questo “Socrate il sopravvissuto/come le foglie”, finalmente arrivato, per sole poche repliche, dall’11 al 15 aprile 2018, al Piccolo Teatro Studio. Lo aspettavamo, perché, ogni volta, questa sofisticata Compagnia di Castelfranco Veneto riesce a proporci un modo di fare teatro dalla cifra inconfondibile. Capace di mixare un registro recitativo giocato per sottrazione con atmosfere stranianti e spesso emozionalmente asettiche, riesce tuttavia a scatenare un forte impatto emotivo, anche… Ma come ci riesce?
Gli ingredienti, ben calibrati e collaudati da una ripetizione quasi alchemica, risultano oramai acquisiti: una dichiarata vocazione pedagogica, sostenuta da un minuzioso lavoro di ricerca accademica, una curiosità destrutturante, che non rinuncia poi a ricostruire attraverso il sincretismo di differenti media e registri espressivi e, in filigrana, quell’affondo sul presente, che all’improvviso rivela il perché di scelte apparentemente tanto lontane; il tutto supportato da immagini sceniche composte, minimaliste e da tappeti musicali dalla modularità ipnotica. Quando l’operazione riesce, ne viene fuori una potentissima giduglia, alle cui spire è difficilissimo resistere.
Ogni spettacolo parla a ciascuno per via per così dire omeopatica. Per il principio secondo cui il simile attrae il consimile, si resta affascinati da quell’aspetto che gli risuona dentro. Così, per maestri vocazionali quali sono gli Anagoor, era inevitabile arrivare a una scelta del genere: ed è quello che risuona in “Socrate il sopravvissuto/come le foglie”, la silenziosa danza delle foglie, ovvero il passaggio di testimone fra “l’animale vecchio e quello giovane – ha spiegato, nell’incontro col pubblico, Antonio Scurati, autore de “Il sopravvissuto”, romanzo sulla cui suggestione s’innerva lo spettacolo: “..che, per quanto possa esserci un meraviglioso rapporto maestro-discepolo, non può non essere un appuntamento mancato. E non è un fatto personale: “Una cresce, una svanisce. Si offenderebbe a volerla chiamare per nome…”, fa dire, a proposito delle foglie, al professore di Filosofia; “Il sopravvissuto” alla strage della commissione d’esame, operata dal maturando Vitaliano Caccia in odor di bocciatura. Ma chi è il professor Andrea Marescalchi? È il Maestro, croce e delizia di un ruolo, di cui qui si avverte tutta l’opprimente responsabilità; in fondo solo “un’assenza, uno che non esiste”, come si autodefiniva Inni Wintrop, il protagonista di “Rituali” di quel Cees Nooteboom fra i riferimenti teorici dello spettacolo. “Chiunque di noi, per quanto sia modesto e mediocre nella vita – molti di noi lo sono… -, nel momento, in cui sale sulla cattedra deve diventare “maestro”, ha spiegato, lo stesso Scurati, che poi continua: “Attraverso la materia deve se-durre e ricondurre a sé lo studente, ipotizzando come colui che insegna vi sia un ammaestramento anche per la vita” e lo studente debba farne tesoro non tanto per il valore nozionistico di quel che impara, quanto per il suddetto patto di se-duzione.
Eccolo, il pesante fardello responsabile di gravare sul capo del professor Marescalchi: membro interno della commissione di maturità e forse per questo sopravvissuto alla strage, non può che assumersene la responsabilità morale, andando a cercare a ritroso, nel diario di classe, quegli indizi capaci di rivelargli il momento preciso di trasmissione di questa sua seppur involontaria lezione.
“Au rebours..” diventa una formidabile chiave drammaturgica per gli Anagoor, che tanto all’indietro risalgono, da planare in quel lontanissimo maggio del 399 a. C., in cui uno dei più (in)discussi maestri scontava il suo magistero di se-duzione bevendo la cicuta. Ed eccolo, il famoso cortocircuito transepocale, che tanto spesso segna i loro spettacoli; eccolo, il nucleo di anti materia, da cui, se tutto funziona, lasciarsi inghiottire. I quadri narrativi si giocano nel doppio scenico dell’azione recitata dal vivo e di quella socratica proiettata. Sul palco solo nove banchi – uno profeticamente vuoto… – con gli studenti ormai prossimi alla maturità, che via via si sciolgono sotto il peso, forse non tanto della mole delle catastrofiche nozioni, che lo sconfortato docente si trova a dover sciorinare in fretta e furia per completare il cannibalico pasto preteso dal programma ministeriale, quanto di tutto ciò che è stato di loro in quel triennio. Invece ci mostra le spalle, il professor Marescalchi/Marco Menegoni, dalla recitazione sicura e convincente; ci dà le sue vulnerabili spalle probabilmente perché siamo un po’ tutti lui, sorpresi dalla vita impreparati eppure costretti a improvvisare e dissimulare a vantaggio di uno show che, nonostante tutto, must go on: ne va delle foglie. Così mentre i ragazzi scompaiono per ritornare in divisa bianca e nera – chissà, forse un accentuato segno del fatto che si sta regredendo al passato, per quanto recente -, il Professore non smette d’intonare il suo atto di dolore per una condizione che non gli appartiene, anche se non può far a meno di recitarla.
Quanta sartriana nausea in tutto ciò – non meno sartriana, del resto, è la rivendicazione di responsabilità per qualcosa che non si è tuttavia causato in modo pienamente consapevole – e quanto pirandelliano scollamento; eppure lo scollamento più evidente è quello che si avverte di fronte ad azioni sceniche pur apprezzabili e ipnotiche, nella loro mantrica tenuta, ma davanti alle quali prevale la fascinazione più che un effettivo riconoscimento/comprensione. Già, perché per ri-conoscere, occorre aver prima conosciuto: e chissà quanti spettatori saranno in grado di cogliere, ad esempio, la citazione/omaggio a Gurdjeff con tutto il suo portato filosofico, nonché precipitato autografale – un po’ come lo spaesato coniglio che inciampa nei piedi di uno dei discepoli di Socrate e che viene da lui sollevato da terra, ergo in qualche modo accolto e salvato – dei “movimenti” con cui gli allievi/coro ipnotizzano, nel cameo centrale, e poi ancora, nella penombra della scena finale, la platea. Eppure non è cosa da poco: inserirla, significa ipso facto richiamarsi alla cosiddetta “Quarta via” e, soprattutto, implicitamente farsi portavoce di una concezione d’arte, che, lungi dal porsi come atto soggettivo di creazione individuale – acquista ulteriori sfumature la critica del Romanticismo, che il Professore non ha il coraggio di esternare, preferendo preservare i suoi allievi -, si ritiene invece erede della concezione arcaica che riconosceva all’arte la medesima funzione conservativa e divulgativa dei libri. E solo così si chiarisce il senso dell’altra lunghissima sequenza, che racconta da un lato della scrupolosa preservazione dei libri – lontana, forse l’eco di quelli salvati dagli studenti dopo l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966 -, dall’altra della loro distruzione – i roghi: che non risparmiarono né libri, né uomini, qui rappresentati da una ragazza forse ad alludere alla caccia alle streghe. Eccoli, i cortocircuiti mancati.
Forse per eccesso di nozionismo, la drammaturgia di Derai/Vercesi non è sempre riuscita a portarci oltre la se-duzione magistrale e invece verso quella con-mozione, che si prova di fronte ad ogni fruizione artistica capace di spostarci in un ri-conoscimento legittimante. Anche la lunga sequenza/doppiaggio del “Fedone” platonico, se da un lato ha l’innegabile pregio di consentirci di ascoltare il ritmo e i modi dell’argomentare socratico, dall’altro, pur in un’ambientazione curata fin nei dettagli, sembra quasi banalizzare. L’arrogante Alcibiade – alter ego ante litteram dello scellerato Vitaliano e, come lui, causa della perdizione del maestro – ci si mostra invece come un giovinetto sprovveduto, che continuamente si tocca la testa e allarga le braccia. Riesce giusto a farci tenerezza, in quel doppiaggio dall’intonazione e dalla mimica amplificata al punto da risultare quasi comica.
È la maschera socratica, d’accordo, che qui si sceglie di restituire con effettive maschere integrali fatte all’uncinetto e completate da parrucche in canapa, “a rivendicare le radici africane della cultura greca”, ha spiegato il regista Simone Derai. Eppure è un peccato, perché tutto questo sotto testo teo(ret)ico si perde e, lungi da innescare frizioni sinapsiche, tutti questi segni rischiano invece di pendere in sterili solipsismi, che li mostrano come elementi meramente decorativi – ergo estetici e non teoretici o etici. Come la scena in cui il Professore racconta della morte di Socrate, così anche la chiosa corale riesce in un affondo emozionale, eppure siamo lontani dalla fascinazione di un “Virgilio brucia”: forse una differente omeopatia o, forse, quel restare invischiati nel ruolo se-duttivo magistrale, senza poter arrivare ad una effettiva con-mozione.
Visto al Piccolo Teatro di Milano l’11 aprile 2018.