RUMOR(S)CENA – DAVID DIAVU’ VECCHIATO – ROMA – Mesi rinchiusi in case, stanze, senza avere la percezione visiva di come il mondo, la natura si stavano evolvendo senza più sentire un passo o, semplicemente, senza più rivedere punti di riferimento utili per iniziare i propri tragici, oppure ritornare alle proprie case. Questi ultimi due mesi dedicati all’immaginazione, al ricordo, al “facciamo finta che…” come quando si era bambini e ci si rinchiudeva nelle stanza e, con quello che avevamo, i nostri giocattoli, davamo altri nomi alle cose, esploravamo altre realtà. E forse, per alcuni di noi, si ritornava in una dimensione del genere in grado di aiutarci a tollerare una nuova forma di sopravvivenza. Fine della fase 1. Inizia la seconda. La città si riempie in maniera irrazionale, come se fino a qualche ora prima fosse stata ai punti di partenza di una corsa. Congiunti sparsi ovunque e tutti tornano a parlare nelle proprie ore di libertà all’aperto. Siamo un po’ come dei carcerati costretti a giustificare l’appartenenza all’aria. In quell’aria riprende il dialogo con visi, volti, enormi, il cinema capace di tornare ad abbracciare la mamma Roma di una Anna Magnani a Prati, o di Ingrid Bergman in Europa’51 -celebre film di Rossellini- a via Fiamignano; e ancora Michele Mercier ne Il giovedì di Dino Risi, in via Ronciglione. Non è soltanto donna del cinema che ti scruta e ti ama: è anche l’uomo responsabile di aver lasciato firme indelebili, come Mario Monicelli via dell’Acqua Bullicante 121, “El mundo era tan reciente… (Gabriel Garcia Márquez)” via di Torpignattara, Roma. Non basterebbe un articolo per citare tutte le opere di David Vecchiato, in arte Diavù, donate a questa città, e non soltanto. È stato tra i primi curatori in Italia a portare Urban Art nei musei e allo stesso tempo le istituzioni museali in strada. Ha curato il festival “Urban Superstar Show” (dal 2009 al MADRE di Napoli e alla Galleria Provinciale di Cosenza) e nel 2010 ha dato vita al progetto “MURo (Museo di Urban Art di Roma)”. Dal 2013 cura su Sky ARTE HD la serie di documentari “MURO”. È anche direttore artistico di “GRAArt”, ideato e diretto per ANAS.
Di Diavù conosciamo anche il volto, a differenza di altri decisi nel celare anche l’identità- Banksy, per esempio, Blu Sirante, o Jorit. Occhi grandi e neri, sembrano voler raccogliere tutto il mondo e restituirlo a chi ancora vuole saperne. Così nascono i suoi progetti, come MURo mARkeT, il più recente progetto di arte urbana inserito nel programma del MURo Festival.
Diavù come nasce MURo mArket? Un giorno ha aperto gli occhi e…
«No, di solito è prima di chiuderli gli occhi che nascono le mie idee, e per questo devo sempre aver vicini al letto uno sketchbook e una matita. Mi sembrano già lontani più di un secolo il MURo Festival e relativi progetti: probabilmente è l’effetto pandemia ad aver resettato i ricordi e spinto lontano la vita pre-Coronavirus.
MURo mARkeT è stato un altro degli interventi ideato per il progetto MURo con l’intento di mettere in relazione quella che è a tutti gli effetti la nuova arte pubblica col senso più profondo dei luoghi in cui viene realizzata. Abbiamo reso il mercato pubblico del quartiere Quarto Miglio, appena ristrutturato dal VII Municipio di Roma, una galleria di opere d’arte muraria dedicate proprio a quell’area, così vicina alle storiche via Appia e via Latina. Gli autori insieme a me sono Beau Stanton proveniente dagli USA, Jim Avignon dalla Germania, Lucamaleonte e la mostra dove sono state raccolto le bozze e le opere realizzate per questo progetto in cui si è aggiunto anche l’artista Nicola Verlato. Artisti celebri già presenti alla prima fase del MURo, iniziata 10 anni prima tra i quartieri Quadraro e Torpignattara di Roma».
In questo periodo così drammatico e nuovo molte tipologie di arte si stanno interrogando su come si evolveranno i linguaggi: per esempio quello teatrale. Molti osano per un’attesa in silenzio al tradizionale modo di fare teatro altri al mostrarsi on-line, quasi concedendo l’idea di fare teatro in streaming. Ha visto un’evoluzione dell’arte stessa. Crede che in un presente come adesso stiano fermentando altre tipologie di fare arte, e di conseguenza linguaggi, anche di Urban Art?
«Vorrei fare una premessa prima di rispondere. L’arte è sotto attacco da parecchio tempo molto prima di questo periodo. Un esempio: avrebbe dovuto essere naturale fin dagli esordi di internet, come i fornitori di telefonia e web avessero dovuto pagare in qualche modo i creatori di musica, audiovisivi e altri contenuti, le ‘materie prime’, grazie alle quali loro guadagnano, ma questo non è mai accaduto e neanche si è mai pensato di discuterne. Eppure se apri il rubinetto esce acqua e il fornitore da cui la compri quella risorsa la paga, e lo stesso accade con l’elettricità o con il gas. Ma se ascolti musica, vedi film e video, leggi blog e pagine web, usufruisci di tanti altri contenuti online, tu paghi e tutte quelle creazioni fornite dal tuo gestore telefonico veicolate mentre a lui non costano nulla. Anzi, tu paghi tu lui per caricarle online.
Per fortuna sono poi nate delle piattaforme che qualcosa riconoscono agli artisti, ma si sono sviluppate sull’onda del ricatto: piuttosto di non guadagnare niente è preferibile accettare due spiccioli da Spotify, Youtube & co. Io ritengo un dovere delle grandi aziende di telefonia nel contribuire in differenti modalità – compresa la lotta contro la pirateria online, cosa che hanno alcun interesse a combattere perché produce utenti e traffico -, rendendo sempre più poveri gli artisti. Ma non sono affatto le sole a farlo. Ogni volta che un utente di un social network condivide l’immagine di un disegno, di un dipinto o di un murale, ci sono giornalisti convinti di poterle usare senza pagare i diritti di pubblicazione a commento dei loro articoli. C’è perfino un editore che pensa di poter pubblicare addirittura quell’opera gratis come copertina di un suo libro. Agenzie pubblicitarie, produzioni televisive e tutto il circo della comunicazione in grado di sentirsi in diritto di sfruttarle gratuitamente. Loro la chiamano “visibilità”, ed è un virus che non uccide ma comunque affama. Non è comico credere come sia la prassi in un sistema neoliberista e capitalista, chiamato a difendere a spada tratta la proprietà privata, dunque anche quella intellettuale?
Veniamo ora alle restrizioni decise dai vari governi del mondo imposte per difendersi dal contagio da Coronavirus. Queste hanno colpito l’ultima possibilità dei musicisti, registi, attori, loro produttori, e tutta la filiera dello spettacolo, che avevano per vivere dignitosamente, cioè l’esibizione dal vivo. Si può tornare ad andare a messa e le squadre di calcio hanno ripreso gli allenamenti, mentre si potrà tornare in palestra, al bar e al ristorante. Le grandi catene commerciali erano – in Italia già dal 4 maggio – piene di clienti nel fare acquisti (sono stato da Leroy Marlin il 9 maggio scorso – racconta Diavù – ed era senz’altro molto più affollato dei Navigli a Milano, posso garantirlo!), mentre ritrovarsi a scuola per studiare o in una platea per usufruire di eventi culturali non se ne parla. Noi facciamo un certo tipo di arte – quella proveniente dal cosiddetto “underground” -, e a questo disagio ci siamo abituati, anzi noi nell’indifferenza, (il peggior attacco), ci siamo cresciuti professionalmente; perché cui ciò che facevamo negli anni ‘90 e nei primi anni del Duemila non trovava certo gallerie d’arte, musei, curatori né istituzioni disposte a tollerare. Prima le fanzine, i centri sociali, i poster e i murales, poi i festival come “Urban Superstar Show”, le tante mostre organizzate a MondoPOP e altrove, i documentari per Sky Arte e i progetti stessi, come GRAArt o MURo, sono state alcune delle vie che io tracciato negli anni per far emergere ciò che facevo insieme a tanti artisti coi quali ho lavorato. Grazie a tutte queste esperienze mi sono salvato. Lo spero col cuore nel pensare che stiano fermentando per far emergere ovunque altre tipologie di fare arte, ma anche altre tipologie di fare la rivoluzione.»
L’arte, in generale, nasce da un bisogno. Basti vedere come negli anni ’50 e ’60 una serie di artisti anonimi già scriveva per protesta sui muri di New York e negli anni ’80 con l’avvento dello spray nel Bronx, si è assistito all’affermazione della street art come forma di sovversione critica verso il sistema economico e politico o come tentativo di riappropriazione degli spazi pubblici. Quale pensa sarà il nuovo “bisogno”, la nuova “necessità” della street art?
«Chi fa arte negli spazi pubblici, artista, curatore o organizzatore , dovrebbe aver capito ormai come il suo operato può avere un potere sulle coscienze delle persone, proprio perché le immagini che produce sono in luoghi condivisi, sempre a disposizione di tutti. Progetti di arte urbana e quelle opere possono produrre effetti concreti: fare arrabbiare le persone, farle pensare, aiutarle a sentirsi meglio, potrebbero addirittura aprirgli nuove prospettive artistico-culturali, e renderle più consapevoli dei loro diritti riguardo l’uso della proprietà pubblica fino a spronarle a difendere quegli spazi dalle dinamiche politico-economiche spesso inique che li amministrano. Io questo ho pensato dieci anni fa iniziando il progetto MURo nel quartiere Quadraro a Roma. Mi sono tuffato in quell’impresa sperimentando su me stesso ogni risultato, scoprendo così dell’arte urbana molte più potenzialità di quelle che avevo previsto.
Oggi penso che più le opere fatte in strada sono decorative e ‘innocue’, e più le persone in futuro rimarranno indifferenti a questa forma d’arte. Riempire le città di belle “carte da parati pubbliche”, per quanto siano accademicamente impeccabili nell’esecuzione e piacevoli esteticamente, rappresenterebbe un depotenziamento che ritengo dovremmo cercare di prevenire. Disinnescare il potere esplosivo delle opere di Street art è come iniettarsi un vaccino: se il tuo organismo si abitua al virus ‘morto’, anche quello ‘vivo’ non avrà più alcun effetto su di te.
Quale penso sarà il nuovo “bisogno” della Street Art? Premesso che quella forza di cui ho appena parlato ce l’avrà ancora, il suo bisogno dovrebbe essere quello di contribuire anch’essa all’ormai inevitabile cambiamento di questo sistema politico, economico e dunque sociale, giunto al collasso. Ogni artista (o ogni progetto artistico) potrà inventarsi come incidere al meglio le coscienze, ma chiunque si limiterà ad intrattenere il pubblico con belle immagini avrà perso un’occasione, e l’avrà persa anche chi ripeterà le solite iconcine pseudo-satiriche che non fanno certo paura a nessuno. Anzi, quelli sono ormai elementi folkloristici, vignette a colori più o meno trascurabili, della grande farsa che mette in scena ogni giorno il sistema dell’informazione a livello globale.
Ammetto che con questo discorso sto rendendo comune, e forse con ingenuo ottimismo, più un mio bisogno personale che una possibile direzione che potrebbe davvero prendere la Street art. Magari è molto meglio fregarsene del destino dell’umanità, e cercare di farsi un nome e un po’ di soldi nell’arco dei dieci anni in cui si riesce a far qualcosa in grado di avere un minimo senso, per poi ripeterla per tutta la vita. “Sono solo canzonette, non mettetemi alle strette”, insomma, altro che potenziale politico dell’arte! Ma per me l’artista è un intellettuale, non un intrattenitore, e mi chiedo: a chi serviranno tutte quelle immagini che lasciamo dietro il nostro percorso, se non hanno altro senso che quello di accalappiare dei momentanei like?»
Lo street artist, di solito, è visto come un individuo che non collabora con nessuno ma che opera nel pieno del silenzio per poi manifestarsi al sole dietro un’opera immensa. Tu, invece, hai collaborato più e più volte, con persone e con ragazzi, anche del Liceo Artistico G. C. Argan. Come è stato interagire con loro?
«L’arte è relazione, e benché io sia caratterialmente un orso mi piace ritrovarmi coi colleghi a schizzare bozzetti sulle tovagliette della pizzeria, farci ispirare da un’opera d’arte classica vista assieme in un museo, mostrare loro ciò che ha formato il mio gusto estetico e andare a trovarli, nelle loro città in giro per il mondo, per visitare i loro luoghi preferiti. Insomma scambiarci idee, e tanto meglio se abbiamo opinioni contrastanti. Per questo tendo a coinvolgere più professionisti che posso nei miei progetti. Non mi capita ovviamente solo con disegnatori o pittori, ma anche con musicisti, teatranti, videomaker, e tutte le persone di cui ho rispetto e la cui intelligenza mi stimola. Per quanto riguarda gli studenti invece “collaborare” è una parola grossa. Mi presto molto volentieri a condividere quello che ho imparato in decenni, ma lo faccio perché con i più giovani si deve fare, altrimenti sei una persona arida.»
Creare. Cosa vuol dire per Diavù?
«Non molto. L’uomo crea assemblando cose morte, e questo fa l’artista, anche se le sue illusioni sembrano inganni più vivi di altri. Consapevole di questo enorme limite non posso comunque farne a meno, perché creare è la mia malattia, ma anche la mia cura. Non riesco proprio a non progettare e se sto un periodo senza concretizzare quei progetti divento più insopportabile del solito. Odioso proprio.»
Nel momento in cui lei inizia sa sempre come finisce o si lascia andare da un flusso?
«No, quando inizia non so mai come finirà, e parlo in terza persona perché la creazione di un’opera è per me qualcosa che vive sganciata da chi la realizza. Ci penso così tanto prima di iniziare che ho bisogno di lasciarmi andare completamente alla volontà dell’opera stessa quando poi disegno. Se quel dipinto però lo devo trasferire nelle grandi dimensioni di un murale allora torno ad essere razionale perché ormai l’opera per me è già finita, mi resta solo da ingrandirla su una grande superfice. E in quel momento so esattamente come finirà e difficilmente sbaglio. Il momento in cui sono davvero perso nel “flusso” è principalmente la fase della bozza e del disegno, oppure nelle prime stesure di pittura di un quadro o del fondo di un murale, quando l’opera è ancora puro colore.»
Nel 1775, all’interno del trattato Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e sculture, J.J.Winckelmann sostiene
« L’imitazione del bello della natura o si attiene ad un solo modello o è data dalle osservazioni fatte su vari modelli riunite in un soggetto solo. Nel primo caso si fa una copia somigliante, un ritratto: è il modo che conduce alle forme ed alle figure olandesi. Nel secondo caso invece si prende la via del bello universale e delle immagini ideali di questo bello; ed è questa la via che presero i Greci.»
Quale via preferisce prendere ?
«Io preferisco la terza via, cioè il brutto ideale, quello che Winckelmann riteneva sconveniente in arte e che, malgrado l’esempio dell’arte Medievale e secoli di grandi geni osservatori delle deformità più nascoste, come Hieronymus Bosch o Francisco Goya, solo con gli espressionisti e con le avanguardie si è riuscito a far promuovere davvero da capriccio artistico a vera opera d’arte. È un processo capace di prendere frammenti qua e là dalla bellezza della natura per ricomporli in un puzzle, in una sorta di mostro di Frankenstein che prima non c’era. Quando disegno nel mio stile più ’cartoon‘ e nei miei sketchbook lavoro per lo più così, di invenzione più che di riproduzione, in un esercizio di filtraggio della realtà concedendomi totale libertà per mano e testa. Nelle opere di Urban Art, come in molti dipinti, mi attengo invece di più al modello, punto cioè alla via del ritratto, ma se osservi attentamente le linee che compongono quei volti e quei corpi le sorprenderai nel cercare di scappare dal figurativo, sono volumi bidimensionali inquieti, come dei camouflage ammaestrati a simulare figure credibili.»
Con quale immagine pensa alla rinascita della terra e dell’essere umano dopo questa avventura?
«Mi spiacerebbe deludere, ma devo dire che non credo affatto a questa “avventura” capace di condurre l’umanità a una rinascita. Non accadrà naturalmente, almeno. Io credo molto nella volontà, cioè in quel cocchiere capace di indirizzare come farebbe con un branco di cavalli tutti i nostri impulsi: istintivi, emotivi, razionali, sessuali che siano. Ma oggi non vedo alcuno sforzo di volontà collettiva per salvarci la vita. Non tra gli adulti almeno. S’è avvertito qualche impulso vitale qualche tempo fa, sull’onda dei Friday for Future, ma temo che si stia già affievolendo come in passato è stato per gli Occupy Wall Street, per i movimenti che si dichiarano apolitici tipo i 5 stelle in Italia, o prima ancora i girotondi, o come fu per i No-Global a cavallo degli anni 2000. Capiamoci, sono tutti esempi diversi, e con intenti diversi, ma li accomuna il bisogno di esprimere il forte disagio che non può non esserci in un mondo in cui una percentuale minima di individui ha nelle proprie mani tutto il potere e la ricchezza mentre la maggioranza vive tra la povertà estrema e la condizione di dover perfino rinunciare a curarsi la salute per tutti i debiti che è costretta a contrarre per sopravvivere. Ma anche questi movimenti di protesta li viviamo ormai come mode passeggere noi grulli occidentali, tanto siamo stati addestrati a restare passivi spettatori della vita.
Anche di fronte all’apocalisse noi abbocchiamo allo spettacolo di luci e colori invece di reagire per salvarci come singoli e come specie. Per questo se penso a un’immagine di futuro ora penso all’infanzia e ad Aria, la bimba che dà il volto al mio ultimo progetto: una rappresentante di quella generazione completamente ignorata durante il lockdown. Sono i bambini della scuola primaria lasciati senza contatto con gli insegnanti, i compagni e gli amici, e senza un’idea chiara di cosa stesse accadendo al mondo e di come sarebbe andata a finire. Ecco, quella generazione che ha visto gli adulti, cioè i genitori, trattati come dei bambini scemi rimproverati da tv, internet e giornali. Io spero possa crescere facendosi fregare un po’ meno da noi e in grado di farcela pagare prima o poi per aver permesso tutto questo. E il mio progetto Aria parla anche di questo.»
Ci parla del suo prossimo progetto di lezioni on line per ragazzi?
«Sono lezioni che fanno proprio parte di Aria. In questo periodo sto ideando futuri murales, interventi di Street art, mostre, video e libri per questo progetto. E anche questi workshop online. Con Aria ho deciso di affrontare il disastro ambientale che stiamo vivendo perché voglio tentare di stravolgerne la narrazione, che è sempre piena di dati e numeri che la maggioranza delle persone si rifiuta di approfondire. Così come ho usato in passato dei simboli visivi per cambiare concretamente alcune dinamiche sociali, e spesso ci sono riuscito, ora la sfida è molto più grande perché sto cercando di trattare un problema alle cui soluzioni ritengo dovremmo pensare ogni giorno, per sbatterlo in faccia a tutti in un esplosione di colori e opere. Ho già iniziato a pubblicare le prime lezioni di Street art e rivoluzione ambientale per bambini sul mio canale Youtube, nel workshop “Diavù Homemade” che sto realizzando assieme a mia figlia più piccola Linda – che è poi il volto di Aria – e che sta girando mia figlia più grande Sofia. Almeno in questo la clausura in casa per la quarantena ci è tornata utile. Poi, grazie al Municipio VII di Roma che ha sposato il progetto e ne produrrà alcune opere, terrò delle lezioni in videoconferenza agli studenti di 3 scuole d’arte, tra cui il liceo Argan che abbiamo già citato prima. Scopo di questi workshop è far illustrare uno a uno dagli studenti i 50 modi per salvarci la vita della Guida di Aria, ovvero 50 punti, tra comportamenti personali utili a evitare le peggiori conseguenze del disastro ambientale e suggerimenti su come costringere governi e multinazionali a darsi una mossa. La prima mostra di Aria sarà al Centro Arti Visive di Ponte De Sor in Portogallo, grazie all’impegno del Festival “Sete Sóis Sete Luas”, dove realizzerò anche un murale e un workshop. In realtà sarei dovuto essere già là in questi giorni, ma fisseremo nuove date appena la pandemia si darà una calmata. Chiunque può essere parte attiva del progetto Aria, basta andare sul sito ariaproject.eu, che è ancora in realizzazione ma ha già molto da scoprire… come vedi non mi limiterò più a colleghi e studenti, ora sono disposto a collaborare anche con gli sconosciuti.»