RUMOR(S)CENA – GENOVA – Una Umanità ancora acquartierata sulle rive dell’Acheronte appena transitato e che, nonostante i ripetuti tentativi di allontanarsi per un altrove ancora sconosciuto ma già desiderato, viene in continuazione richiamata dalla mano violenta degli dei e risucchiata su quel confine di e con la morte. Agamennone è la prima delle tre parti dell’Orestea di Eschilo, l’unica e la più lontana trilogia giunta completa fino a noi, e la tragedia antica contiene in sé, niccianamente, la memoria di quel passato primigenio, di quell’attraversamento arcaico. Il filo rosso che la percorre e l’imprigiona è il mondo femminile, unico custode della vita che si rinnova, progressivamente coartato nel conflitto con un maschile che non può privarsene ma che lo vuole sottomesso. Sono le donne della tragedia, Clitemnestra e Cassandra, Ifigenia e Elettra, i punti di caduta della volontà degli uomini, l’appiglio per costruire una nuova storia dell’umanità che si farà patriarcale anche per controllare, cauterizzandole, le vecchie ferite.
È una esplosione violenta, quella che la scena propone e ribadisce anche nei suoni e nelle sue visioni, che porta alla luce l’atroce passato che ha costruito il doloroso presente, il quale chiede giustizia ma richiama inevitabilmente vendetta, in una catarsi sanguinaria che alla fine ambisce e impone una stabilizzazione, la normazione della legge civile, rinuncia e insieme volonterosa elaborazione. Del resto, come ha scritto Umberto Albini, quello di Eschilo <<non è certo un teatro tranquillizzante che offra (o confermi) delle verità: è un teatro che solleva angosce continue, presentando alternative comunque dolorose>>.
In dubio pro reo, recita la moderna legge della realtà giuridica che ci circonda, una postulazione che in fondo è rinuncia all’assoluto della vendetta in favore della più tollerabile contingenza e relatività umana della giustizia, sintesi anche di un percorso interiore che deve riguardarci oltre le forme della società. Il centro di quella esplosione è la narrazione parallela, che dà senso e luce alla tragedia stessa, delle vicende di Egisto, unico figlio sopravvissuto all’orrendo banchetto preparato da Atreo, padre di Agamennone, per il fratello Tieste, e di quelle di Clitemnestra che ha perso l’amata figlia bambina Ifigenia, sacrificata per la vittoria nella guerra di Troia. In fondo la regina di Argo, la cui mano guida la sanguinosa doppia vendetta, ha fatto ciò che doveva essere fatto ma che, però, non poteva più essere fatto.
Agamennone dunque è il momento della furia dionisiaca che si prepara alla incerta stabilizzazione del dopo, imposta dal finale tribunale dell’Areopago, in cui gli dei antichi finalmente si allontanano lasciando spazio all’umano logos che può ora organizzare il mondo e guidare il viaggio, oltre lo Scamandro dell’antica Troia e dunque oltre l’Acheronte che chiude l’orizzonte. Catarsi ed elaborazione interiore sono quel transito, quel passaggio sempre in pericolo, e qui sta la straordinaria modernità della tragedia, sempre assediato da una spinta violenta che cerca forse oggi il suo spazio nell’anonimato di una rete, tra odiatori e stalker, in cui la presa di una identità condivisa sembra sempre più allentarsi.
Davide Livermore, in una produzione di grande impegno del Teatro Nazionale di Genova, porta in scena l’intera trilogia, in due momenti a partire da questa rappresentazione, in una prima nazionale al chiuso dopo l’esordio a Siracusa, cui seguiranno, insieme, Coefore ed Eumenidi. È una messa in scena che prende su di sé e in piena fedeltà il testo di Eschilo e lo immerge in una sorta di universo metafisico senza confini, in cui precipitano insieme simbologie arcaiche e modernissime metafore di un universo umano in movimento e dagli incerti orizzonti. Dentro questo universo la parola di Eschilo è scarnificata quasi e, come un grido, spinta oltre se stessa, mescolando mimica, danza, musica, in un insieme che rivendica quasi, rinnovandola nello spettacolo dell’oggi che circonda e invade scena e palcoscenico, la sintassi dell’antico rito.
Nel solco dell’esplosione dei segni che prima citavo, in un rimbombo tra interiore ed esteriore che talora sembra privilegiare, nella eversione non sempre pienamente riuscita dei più tradizionali meccanismi della rappresentazione, il secondo aspetto. Un tragico melodramma in fondo, in cui si trasla il mito arcaico e si aggiorna il rito dionisiaco, di cui sfuma gli aspetti religiosi in favore di moderne rutilanze anche cinematografiche, con citazioni indirette da recenti colossal. È l’idea di teatro che Livermore, che ha curato anche le belle scenografie dalla novecentesca figuratività totalitaria, tra nero e rosso, tra passato e diacronico futuro, custodisce e coltiva, in cui proprio l’aspetto più spettacolare vuole essere canale di condivisione e dunque di collettiva assunzione di responsabile elaborazione, favorita qui anche dalla politezza di una traduzione che facilita comprensione ed immedesimazione.
Una traduzione, quella del grecista Walter Lapini dunque che, senza entrare in dispute filologiche ma cogliendo, quasi di fiore in fiore, l’esito più liricamente immediato, punta ad una forte dicibilità della parola, il cui suono trasporta e rafforza il senso profondo del suo transitare. Del resto in questo il Teatro Nazionale di Genova è custode di una grande specifica tradizione, basterà ricordare Edoardo Sanguineti. Laura Marinoni è una Clitennestra che spinge sulla sua infiammata femminilità, tra sensualità e lucida violenza, ma tutto il cast, sia maschile che femminile, dà di sé una prova notevole, sullo sfondo degli elaborati movimenti di un coro che sopporta le stimmate di una profonda e moderna riconoscibilità, mentre il fantasma di Ifigenia bambina sembra caratterizzarne l’orizzonte.
Da segnalare, ed è un segno caratteristico degli spettacoli di Livermore, il ruolo essenziale della musica in scena, con due interpreti di grande livello Stefania Visalli e Diego Mingolla. Costumi e disegno luci si integrano con facilità nella complessiva favorevole percezione del transito scenico.
Al teatro Ivo Chiesa di Genova dal 14 al 19 marzo. Alla prima la grande sala praticamente piena, molto entusiasmo e numerose chiamate.
Orestea: Agamennone di Eschilo. Regia Davide Livermore, traduzione Walter Lapini, costumi Gianluca Falaschi, scene Davide Livermore e Lorenzo Russo Rainaldi, disegno luci Marco De Nardi, video design D-Wok. Interpreti Laura Marinoni, Sax Nicosia, Linda Gennari, Gaia Aprea, Olivia Manescalchi, Stefano Santospago, Maria Grazia Solano, Maria Laila Fernandez, Alice Giroldini, Marcello Gravina, Turi Moricca, Valentina Virando. Musicisti Diego Mingolla, Stefania Visalli, musiche originali Mario Conte. Una produzione Teatro Nazionale di Genova INDA – Istituto Nazionale Dramma Antico.
Dal 21 al 25 marzo Coefore ed Eumenidi.