RUMOR(S)CENA – FIRENZE – In un assedio non esistono né buoni né cattivi. Le ragioni non hanno alcuna importanza, contano solo i motivi: le cause, le meccaniche, il principio. Il Principio di Archimede, assedio lo è già nella sua forma di oggetto teatrale. L’assedio del pubblico che prende posto direttamente sul palco, vicinissimo agli attori, ma al sicuro dietro le pareti invisibili ai lati della scena. Da lì invade con lo sguardo lo spazio più recondito, il più intimo che si possa immaginare. Lo spogliatoio di una piscina, anzi di più: lo spogliatoio degli istruttori di nuoto. il posto dove quei giovani uomini che da bordo vasca sorvegliano i nostri corpi flaccidi e impacciati, così come quelli dei nostri figli, finalmente rimangono nudi. Josep Maria Miró non ci mostra, ma ci offre l’occasione di spiare. Di spiare dove non possiamo e spiando, di vendicarci del fatto che quel posto ci fosse interdetto prima che lo potessimo assediare con gli occhi, con le orecchie. Il regista Angelo Savelli e il Teatro Di Rifredi, che ben conoscono la drammaturgia di Miró, adempiono così alla prerogativa che ricorre in tutta l’opera dell’autore catalano, ovvero la responsabilizzazione del pubblico. Degli spettatori che diventano elemento di un’equazione che non vuole dimostrare, ma lasciare che le cose accadano.
Lasciare che si rimanga indignati dal mostruoso David, il il padre per cui morale e genitorialità sono questioni da sbrigare con la stessa celerità con cui si risponde alle notifiche sullo smartphone; lasciare che si provi compassione per Anna, reduce dei trasognamenti di un progressismo benedetto dalle circostanze eppure incapace di fornirle un’alternativa all’autoritarismo che un tempo rifiutava. E soprattutto lasciare che a poco a poco l’empatia che provavamo per Jordi, agnello sacrificale di una società che non sa più distinguere tra spontaneità e irresponsabilità, venga incrinata dallo stesso sospetto che fino a poco prima ritenevamo ingiusto, grossolano, frettoloso. Ed ecco che a un tratto quella frase così vuota, quell’interrogativo esoso che David rivolge ad Anna “Cosa farebbe se si trattasse di suo figlio?” comincia ad apparirci in qualche modo sensato. Eppure, a differenza di quel padre che vuole solo un capro espiatorio, di quella donna spaventata che non sa essere all’altezza del suo ruolo di sacerdotessa guardiana del tempio di acqua e cloro, noi spettatori abbiamo a disposizione un punto di vista privilegiato.
Tutto ci viene raccontato e possiamo vedere e rivedere tutto, perché la narrazione viene riavviata nel continuo espandersi dei flashback, come in un sistema d’intercettazione video che dovrebbe fornirci l’onniscienza necessaria al giudizio. E allora per quale motivo dubitiamo, perché non sappiamo scegliere da che parte stare? Perché se è vero che tutto accade anche senza di noi, ancor più terribile è che la nostra presenza non impedisca alle cose di avvenire.
Sono presenti quanto noi, vivi e in azione, i personaggi del dramma e i corpi dei quattro attori che li interpretano. Innanzitutto c’è il lavoro di Giulio Maria Corso nel confezionamento del suo Jordi, esempio di una “razionalità emotiva” che meriterebbe una particolare attenzione; il colore informale nel linguaggio e la ricerca di un effetto viscerale, ben modulati da un approccio tanto rispettoso quanto coraggioso alla dimensione della prosa, riescono a far dialogare il cinematografico con il teatrale: dilemma che nel corso degli anni si è tentato di rimuovere, di disinnescare e mai di risolvere veramente, ma che qui, nell’interpretazione dell’attore palermitano, trova invece una piattaforma percorribile. Sparring partner in senso emotivo e letterale, data la fisicità del loro confronto sul palco, è Hector-Samuele Picchi. Il testo gli delega la responsabilità di far emergere il personaggio pur avendo a disposizione uno spazio di manovra più esiguo, ma la strategia della misura scelta da Picchi (per cui in passato è riuscito a farsi apprezzare anche in ruoli che sulla carta potevano apparire più dirompenti), ancora una volta centra l’obiettivo.
Nella dinamica del suo Hector c’è quel rovesciamento che è perno della narrazione e nella pulizia del tratto improvvisamente vediamo la nostra immagine di spettatori impotenti che si riflette sul volto del giovane nuotatore. La necessarietà degli eventi ci relega nell’unico ruolo possibile, lo stesso di Hector: essere negativi del riflesso di Jordi. Jordi potrebbe essere colpevole, o magari no, ma la sola domanda sensata adesso è: “Cosa faremmo se si trattasse di nostro figlio?”. L’assedio dispone i suoi schieramenti: i genitori contro Jordi, lo spazio privato contro quello pubblico, la barbarie del moderno contro l’esosa inviolabilità dell’acquisito. Noi contro il nostro benaltrismo compulsivo.
Generali ideali delle due fazioni sono Riccardo Naldini e Monica Bauco, rispettivamente David e Anna. Se il confronto tra Jordi e Hector è attuativo, performante, lo scontro tra David e Anna è giocato sul territorio del passato. Eppure a spuntarla è il più abile nel maneggiare il presente. Certo, David nell’uso delle nuove forme di comunicazione non è più che un primate che brandisce una pietra scheggiata, ma ciò che comprende a pieno è di aver a disposizione un’arma contro la quale tutta la raffinatezza emotiva di Anna non può niente. La coppia di attori interagisce molto bene. Il David di Riccardo Naldini è efficacissimo, capace di una laconicità micidiale quanto di affondi stoccati in punta di battuta, con una presenza che sa prendere la scena senza uscire dalla funzione di personaggio-congegno, freddo e ineluttabile. E se Monica Bauco, nei momenti in cui la sua Anna è coinvolta anche nel rapporto tra Jordi e Hector, deve faticare un po’ per accordarsi alla dicotomia trai due e alla ritmica dell’intreccio, faccia a faccia con Riccardo Naldini ritrova profondità e riesce sciogliere alcuni inceppamenti, salvando la credibilità del personaggio, un ruolo delicato e complesso.
Dramma orizzontale, coi suoi strati compressi nella striscia di un qui e ora che contiene il passato ma non potrà contenere il futuro incombente, il Principio di Archimede racconta le dinamiche di una società sotto assedio, sperimentate “in vitro” secondo il metodo di Miró nella doppia vasca realizzata da Angelo Savelli con le scene di Federico Biancalani. La vasca dove si muovono storia e attori, e quella più grande, che racchiude anche il pubblico. “Abbiamo tutti paura” dice Anna, ma non è una ragione, né tantomeno una scusa, solo una spinta immane all’interno di un sistema chiuso. Non c’è morale in questo testo compatto, scritto da un autore talmente colto da sapere che per far cultura non c’è mezzo migliore dell’intrattenimento, e messo in scena da una produzione che ben prima di conoscerlo e di farlo conoscere in Italia, era già d’accordo con lui… però una riflessione la si può anche tentare. La resistenza a un assedio non sta nella capacità di tenere al di fuori, ma di scegliere cosa lasciare entrare.
Visto al Teatro di Rifredi di Firenze l’8 aprile 2022